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V: Maturazione
La strega non si sapeva dar pace: - Che hai concluso? - mi domandava. - Non t'era bastato, di', esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela? Non t'era bastato? - Eh no, cara suocera! - le rispondevo. - Perché, se mi fossi arrestato lì vi avrei fatto un piacere, reso un servizio... - Lo senti? - strillava allora alla figlia. - Si vanta, osa vantarsi per giunta della bella prodezza che è andato a commettere con quella... - e qui una filza di laide parole all'indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i fianchi, appuntando le gomita davanti: - Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo figlio, così? Ma già, a lui, che glien'importa? E' suo anche quello, è suo... Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch'esso aveva sull'animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell'angustia, nell'incertezza del domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna, ch'era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa! E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia neanche di parlare o d'aprir gli occhi. Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più né vedere né sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell'inferno di casa mia. Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né scrupolo, fece l'ultima: si mise d'accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la maggior parte scoperti e il podere insieme col molino fu messo dai creditori sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati. Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un'occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m'ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava d'assistere e di prender parte in casa mia mi toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po' a considerare, ciò che avrei potuto e saputo fare. Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, lì in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma agli occhi miei irresponsabile de' suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di poterci stare, lì a quel posto; come se fosse sempre in attesa di partire, di partire tra poco - se Dio voleva! E non dava fastidio neanche all'aria. Sorrideva ogni tanto a Romilda, pietosamente; non osava più di accostarsele; perché, una volta, pochi giorni dopo la sua entrata in casa nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata sgarbatamente allontanata da quella strega. - Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare. Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d'ajuto in quel momento, m'ero stato zitto; ma spiavo perché nessuno le mancasse di rispetto. M'accorgevo intanto che questa guardia ch'io facevo a mia madre irritava sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand'io non fossi in casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E questo pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per vedere se avesse pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi domandava: - Perché mi guardi così? - Stai bene, mamma? Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi rispondeva: - Bene; non vedi? Va' da tua moglie, va'; soffre, poverina. Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli che si prendesse lui in casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto volentieri sopportato anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei unicamente. Berto mi rispose che non poteva; non poteva perché la sua condizione di fronte alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima, dopo il nostro rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma - diceva - si sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perché anche egli conviveva con la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva diventar cattiva per le inevitabili gelosie e gli attriti che nascono tra suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a casa mia; se non altro, non si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e non sarebbe stata costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo di non potere, per tutte le considerazioni esposte più sù, prestarmi un anche menomo soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto. Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l'animo esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere anche per poco l' equilibrio che forse gli costava tanto studio, l'equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors'anche con una cert'aria di dignità alle spalle della moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre alla bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d'elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare alla moglie neppure un briciolo di cuore, che forse l'avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l'aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero Berto? Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche maniere. Prevedevo da un momento all'altro un prorompimento del suo furore, contenuto ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo. Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, mente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma. Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perché aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s'era subito allogata altrove a servire; ma l'altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che già l'aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d'andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l'affetto e la devozione che sentiva per lei. Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l'ira della vedova Pescatore. Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all'altra vecchietta, come per ripararsi. Veder mia madre in quell'atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt'uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s'arrestò di fronte a me. - Fuori! - mi gridò. - Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia! - Senti; - le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. - Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene,; per il tuo bene! vattene! Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre: - No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola! Ma quella degna madre la respinse, furibonda: - L'hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola! Ma non se ne andò s'intende. Due giorni dopo, mandata - suppongo - da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma. Questa scena merita di essere rappresentata. La vedova Pescatore stava quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se nulla fossa. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei. - Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!. Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano. La vedova Pescatore, zitta. Finito di abburattare; intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte « Ma sì! - ma certo! - ma come no? - ma sicuramente! » ; poi, come se non bastasse, andò a prendete il mattarello; e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo. Non l'avesse mai fatto!- Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre: - Eccoti! lascia tutto. Via subito! E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel'appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via. Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m'afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto sit venia verbo receva di là, tra acutissime strida, mentr'io: - Le gambe! le gambe! - gridavo alla vedova Pescatore per terra. - Non mi mostrate le gambe, per carità! Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me. Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l'ero ben meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d'ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l'obbligo di venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui. Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo. Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m'imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via di lungo. - Pomino! Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi bassi: - Che vuoi? - Pomino! - ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella sua mutria. - Dici sul serio? Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi. Ero ancora com'ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da quando m'ero guardato allo specchio. Vedi questi sgraffii? - gli dissi, a un certo punto. - Lei me li ha fatti! - Ro... cioè, tua moglie? - Sua madre! E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui. Mi venne allora la tentazione di domandargli perché dunque, se veramente n'era cosi addogliato, non l'aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il volo con la, com'io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia d'innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell'orgasmo in cui mi trovavo; ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se la facesse, di quei giorni. - Con nessuno! - sospirò egli allora. - Con nessuno! Mi annojo, mi annojo mortalmente! Dall'esasperazione con cui proferì queste parole mi parve d'intendere a un tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco qua: non tanto Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a mancare; Berto non c'era più; con me non poteva più praticare, perché c'era Romilda di mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino? - Ammógliati, caro! - gli dissi. - Vedrai come si sta allegri! Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi chiusi; alzò una mano: - Mai! mai più! - Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia, sono a tua disposizione, anche per tutta la notte, se vuoi. E gli manifestai il proponimento che avevo fatto, uscendo di casa, e gli esposi anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si commosse, da vero amico, e mi profferse quel po' di denaro che aveva con sé. Lo ringraziai di cuore, e gli dissi che quell'aiuto non m'avrebbe giovato a nulla: il giorno appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m'abbisognava. Aspetta! - esclamò allora Pomino. - Sai che mio padre è ora al Municipio? - No. Ma me l'immagino. - Assessore comunale per la pubblica istruzione. - Questo non me lo sarei immaginato. - Jersera, a cena... Aspetta! Conosci Romitelli? - No. - Come no! Quello che sta laggiù, alla biblioteca Boccamazza. E' sordo, quasi cieco, rimbecillito, e non si regge più sulle gambe. Jersera, a cena, mio padre mi diceva che la biblioteca è ridotta in uno stato miserevole e che bisogna provvedere con la massima sollecitudine. Ecco il posto per te! - Bibliotecario? - esclamai. - Ma io... - Perché no? - disse Pomino. - Se l'ha fatto Romitelli... Questa ragione mi convinse. Pomino mi consigliò di farne parlare a suo padre da zia Scolastica. Sarebbe stato meglio. Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e ne parlai a lei, poiché zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro giorni dopo, diventai bibliotecario. Settanta lira al mese. Più ricco della vedova Pescatore! Potevo cantar vittoria. Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli, a cui non ci fu verso di fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò non doveva più venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stess'ora, né un minuto prima né un minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno per mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal taschino del panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con tutta la formidabile catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di tasca la papalina, la tabacchiera e un pezzolone a dadi rossi e neri; s'infrociava una grossa presa di tabacco, si puliva, poi apriva il cassetto del tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla biblioteca: Dizionario storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi, stampato a Venezia nel 1758. - Signor Romitelli! - gli gridavo, vedendogli fare tutte queste operazioni, tranquillissimamente, senza dare il minimo segno d'accorgersi di me. Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo scotevo per un braccio, ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la faccia per sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi, così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma che! leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo; leggeva forte: - Birnbaum, Giovanni Abramo... Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare... Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738... a Lipsia nel 1738... un opuscolo in- 8°: Osservazioni imparziali su un passo delicato del Musicista critico. Mitzler... Mitzler inserì... Mitzler inserì questo scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739... E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e date, come per cacciarsele a memoria. Perché leggesse cosi forte, non saprei. Ripeto, non sentiva neanche le cannonate. Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare a quell'uomo in quello stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi dopo la mia nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in 8°? E non gli fosse almeno costata tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere che non potesse farne a meno di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti (lui, così sordo!) e artisti e amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva forse che un bibliotecario, essendo la biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima viva; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro? Era tanto imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto più probabile della prima. Intanto, sul tavolone lì in mezzo, c'era uno strato di polvere alto per lo meno un dito; tanto che io - per riparare in certo qual modo alla nera ingratitudine de' miei concittadini - potei tracciarvi a grosse lettere questa iscrizione: A MONSIGNOR BOCCAMAZZA MUNIFICENTISSIMO DONATORE IN PERENNE ATTESTATO DI GRATITUDINE I CONCITTADINI QUESTA LAPIDE POSERO Precipitavano poi, a quando a quando, dagli scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto un coniglio. Furono per me come la mela di Newton. Ho trovato! - esclamai tutto contento. - Ecco l'occupazione per me, mentre Romitelli legge il suo Birnbaum. E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza, d'ufficio, all'esimio cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica istruzione, affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui mantenimento non avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i suddetti animali avrebbero avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della loro caccia. Soggiungevo che non sarebbe stato male provvedere altresì la biblioteca d'una mezza dozzina di trappole e dell'esca necessaria, per non dire cacio, parola volgare, che - da subalterno - non stimai conveniente sottoporre agli occhi d'un assessore comunale per la pubblica istruzione. Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di quegli enormi topi, e - per non morir di fame - si ficcavano loro nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare. Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui avesse soltanto l'obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della biblioteca, volli, prima d'andarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò: - Che è stato? - Due topi, signor Romitelli! - Ah, topi... - fece lui tranquillamente. Erano di casa; c'era avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura del suo libraccio. In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano « parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza ». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un'altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d'ammaccature. Ora così venne a maturazione l'anima mia, ancora acerba. In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma poteva bastarmi? La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali' provai un brivido d'orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l'obbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e - sissignori - mi misi a leggere anch'io, e anch'io con un occhio solo, perché quell'altro non voleva saperne. Lessi così di tutto un po', disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria. La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e m'impedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia densa e greve, mormorando: - Così, sempre, fino alla morte, senz'alcun mutamento, mai... L'immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per scuotermela d'addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna: - Ma perché? ma perché? E mi bagnavo i piedi. Il mare allungava forse un po' più qualche ondata, per ammonirmi: « Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! L'acqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia: va', va' piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8°: ne trarrai senza dubbio maggior profitto. » Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo! Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera m'afferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso: - Un medico! Scappa! Romilda muore! Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece, « Correte! ». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte pigliare; e mentre correvo, non so come, - Un medico! un medico! - andavo dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch'io a spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: - Un medico! un medico! E il medico intanto era la, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l'altra alla luce. - Due! Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l'una accanto all'altra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine cosi gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e anch'esse non avevano forza di vagire come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si sgraffiavano! Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: - erano mie! Una mi morì pochi giorni dopo; l'altra volle darmi il tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto l'ardore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s'era fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli d'oro ch'io m'avvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: - Figlia -; e lei di nuovo: - Papà...-; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro. Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stess'ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla più rivedere, baciare per l'ultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un minuto... debbo dirlo? - molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano, umano, umano - io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai. Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando mi destai, il dolore m'assalì rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia, che non erano più... E fui quasi per impazzire. Un'intera notte vagai per il paese e per le campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel podere della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo, vecchio mugnajo, lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto gli alberi, e mi parlò a lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de' bei tempi lontani; e mi disse che non dovevo piangere e disperarmi cosi, perché per attendere alla figlioletta mia, nel mondo di là, era accorsa la nonna, la nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle ginocchia e le avrebbe parlato di me sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai. Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi le lagrime, mi mandò cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della mamma, diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica. Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio della biblioteca. Poi servirono per me; e furono - come dirò - la cagione della mia prima morte.

 

V

MATURATION

Je sens encore mes cheveux se dresser sur ma tête en pensant aux orages que déchaîna sur moi la femme exécrable qui fut ma belle-mère.

Elle ne manquait jamais de rendre Romilda jalouse d’Olive, jalouse aussi de cet enfant qui allait naître à Olive dans l’aisance et la joie ; tandis que celui de Romilda tomberait au milieu de la gêne, de l’incertitude du lendemain, et de cette guerre odieuse. Cette jalousie s’accroissait encore par les nouvelles que quelque brave femme, feignant de ne rien savoir, venait m’apporter de la tante Malagna qui était si contente, si heureuse de la grâce que Dieu avait enfin daigné lui accorder : ah ! Olive était devenue une vraie fleur ; jamais elle n’avait été aussi belle, aussi bien portante.

Et Romilda était là, effondrée sur un fauteuil, pâle, défaite, enlaidie, sans un moment de bon, sans plus même l’envie de parler ou d’ouvrir les yeux.

Était-ce ma faute, cela encore ? Il paraît que oui. Elle ne pouvait plus me voir ni me sentir. Et ce fut pis, quand, pour sauver le domaine de l’Épinette avec le moulin, on dut vendre les maisons, et que ma pauvre maman en fut réduite à entrer dans l’enfer de ma maison.

D’ailleurs, cette vente ne servit à rien. Malagna, avec ce fils à naître, qui le dispensait désormais de toute retenue et de tout scrupule, joua sa dernière partie : il se mit d’accord avec la bande noire et acheta en sous-main les maisons pour quelques sous. Les dettes qui grevaient l’Épinette restèrent ainsi pour la plupart à découvert, et le domaine avec le moulin fut soumis par les créanciers à une administration judiciaire. Notre avoir était liquidé.

Que faire désormais ? Je me mis, mais sans grand espoir, à la recherche d’une occupation quelconque, pour pourvoir aux besoins les plus urgents de la famille. J’étais inapte à tout, et la renommée que je m’étais faite avec mes entreprises juvéniles et avec mon désœuvrement n’engageait certes personne à me donner du travail. D’ailleurs, les scènes auxquelles il me fallait journellement assister et prendre part dans la maison m’enlevaient ce calme dont j’avais besoin pour me recueillir un peu et considérer ce que j’aurais pu et su faire.

Ce qui me causait une véritable répugnance était de voir ma mère, là, en contact avec la veuve Pescatore. Ma sainte petite vieille, non plus ignorante, mais à mes yeux irresponsable de ses torts provenant de n’avoir pas su croire, avant d’en avoir tant de preuves, à la méchanceté des hommes, en restait toute repliée sur elle-même, les mains dans son tablier, les yeux baissés, assise dans un coin, comme si elle n’eût pas été bien sûre de pouvoir y rester, là, à cette place comme si elle eût été toujours dans l’attente d’un départ, d’un départ prochain, si Dieu le voulait ! Et elle ne dérangeait pas même l’air qui l’entourait. De temps en temps, elle souriait à Romilda, pitoyablement ; elle n’osait plus l’approcher, car, une fois, peu de jours après son entrée chez nous, étant accourue pour lui prêter son aide, elle avait été rudement repoussée par la vieille sorcière.

Par prudence, Romilda ayant vraiment besoin d’aide à ce moment, j’étais resté coi ; mais je veillais à ce que personne ne manquât de respect à ma pauvre maman.

Je m’apercevais pourtant que la garde que je montais autour de ma mère irritait sourdement la sorcière et même ma femme. Je craignais que, quand je n’étais pas à la maison, pour exhaler leur rage et épancher leur bile, elles ne la maltraitassent. J’étais sûr que maman ne m’en aurait rien dit. Et cette pensée me torturait. Combien de fois lui regardai-je les yeux pour voir si elle avait pleuré ! Elle me souriait, me caressait du regard, puis me demandait :

– Pourquoi me regardes-tu ainsi ?

– Te sens-tu bien, maman ?

Elle me faisait à peine un geste de la main et me répondait :

– Bien ! Ne vois-tu pas ? Va près de ta femme, va ! Elle souffre, la pauvre petite !

Je pensais à écrire à mon frère Robert, à Oneglia, pour lui dire de prendre chez lui notre mère, non pour m’enlever une charge que j’aurais si volontiers supportée, même dans la gêne où je me trouvais, mais uniquement pour son bien à elle.

Berto me répondit qu’il ne pouvait pas ; il ne pouvait pas parce que sa situation en face de la famille de sa femme et de sa femme elle-même, était des plus pénibles, depuis nos revers : il vivait sur la dot de sa femme. Il n’osait encore imposer à celle-ci la charge de sa belle-mère. Du reste, la maman, disait-il, ne se serait peut-être pas trouvée bien, pour la même raison, dans sa maison, car lui aussi vivait avec la mère de sa femme, excellente sans doute, mais qui pouvait devenir mauvaise, grâce aux jalousies inévitables et aux froissements qui se produisent entre les belles-mères. Il valait donc mieux que la maman restât chez moi : au moins elle ne s’éloignerait pas, dans ses dernières années, de son pays et ne se verrait pas contrainte de changer de vie et d’habitudes. Enfin, il se déclarait très peiné de ne pouvoir, pour toutes les considérations exposées ci-dessus, me prêter le moindre secours pécuniaire, comme il l’aurait désiré de tout son cœur.

Je cachai cette lettre à ma mère. Rompre même très peu l’équilibre qui, peut-être, lui coûtait tant d’étude, l’équilibre grâce auquel il pouvait vivre proprement et peut-être même avec un certain air de dignité, aux dépens de sa femme, aurait été pour Berto un sacrifice énorme, une perte irréparable. Outre sa belle prestance, ses manières distinguées, tout cet extérieur de monsieur élégant, il n’avait plus rien, lui, à donner à sa femme, pas même un brin de cœur qui, peut-être, lui aurait fait oublier l’ennui qu’aurait pu lui apporter ma pauvre maman. Mais, quoi ! Dieu l’avait fait ainsi ; il ne lui en avait donné qu’un tout petit peu, de cœur. Qu’y pouvait-il faire, le pauvre Berto ?

Cependant, la gêne croissait, et je ne trouvais rien pour y remédier. On vendit les bijoux de maman, chers souvenirs ! La veuve Pescatore, craignant que moi et ma mère en fussions réduits avant peu à vivre sur sa méchante rente dotale de quarante-deux lires par mois, devenait de jour en jour plus sombre et de manières plus méchantes. Je prévoyais d’un moment à l’autre l’explosion de sa fureur, contenue depuis trop longtemps, peut-être, grâce à la présence et à l’attitude de maman. En me voyant tourner par toute la maison comme une mouche sans tête, cet ouragan de femme me lançait des regards précurseurs de tempête. Je sortais pour interrompre le courant et empêcher la décharge. Mais ensuite je craignais pour maman et je rentrais.

Un jour, pourtant, je n’arrivai pas à temps. La tempête avait éclaté, et pour un prétexte des plus futiles : pour une visite des deux vieilles servantes à ma mère.

L’une d’elles, n’ayant rien pu mettre de côté, parce qu’elle avait dû entretenir une fille restée veuve avec trois bambins, s’était aussitôt placée pour servir ailleurs ; mais l’autre, Marguerite, seule au monde, plus fortunée, pouvait maintenant reposer sa vieillesse avec le magot recueilli en service chez nous. Or, il paraît qu’avec ces deux braves femmes, compagnes éprouvées de tant d’années, maman se plaignit doucement de son état si misérable et si amer. Alors, aussitôt, Marguerite, la bonne petite vieille qui l’avait déjà soupçonné et n’osait pas le lui dire, lui avait offert de s’en aller avec elle à sa maison : elle avait deux chambrettes bien propres, avec une terrasse qui regardait la mer, pleine de fleurs ; elles resteraient ensemble, en paix. Oh ! elle allait être heureuse de pouvoir encore la servir, de pouvoir lui prouver ainsi l’affection et la dévotion qu’elle ressentait pour elle !

Mais ma mère pouvait-elle accepter l’offre de cette pauvre vieille ? D’où la colère de la veuve Pescatore.

Je la trouvai, en rentrant, les poings tendus contre Marguerite, laquelle pourtant lui tenait tête courageusement, tandis que maman, épouvantée, les larmes aux yeux, toute tremblante, se tenait attachée des deux mains à l’autre petite vieille, comme pour se garantir.

Voir ma mère dans cette posture et perdre la lumière de mes yeux fut tout un. Je saisis par un bras la veuve Pescatore et l’envoyai pirouetter bien loin. Elle se redressa et courut sur moi, pour me sauter après ; mais elle s’arrêta.

– Hors d’ici ! me cria-t-elle. Toi et ta mère allez ! Hors d’ici tous deux !

– Écoute, lui dis-je alors, d’une voix qui tremblait par les efforts violents que je faisais pour me contenir. Écoute ! Va-t’en dehors, toi, tout de suite, avec tes jambes, et ne me mets plus à l’épreuve. Va-t’en, pour ton bien ! Va-t’en !

Romilda, pleurant et criant, se leva de son fauteuil et vint se jeter dans les bras de sa mère :

– Non ! Toi avec moi, maman ! Ne me laisse pas ici !

Mais cette digne mère la repoussa, furibonde.

– Tu l’as voulu ? Garde-le, maintenant, ton mauvais voleur ! Je m’en vais toute seule !

Mais elle ne s’en alla pas, bien entendu.

Deux jours après, mandée, je suppose par Marguerite, arriva en grande furie, à l’accoutumée, tante Scholastique, pour emmener maman avec elle.

Cette scène mérite d’être représentée.

La veuve Pescatore était ce matin-là, en train de faire le pain, les manches retroussées, son jupon relevé et entortillé autour de sa taille pour ne pas le salir. Elle se tourna à peine en voyant entrer la tante et continua à pétrir comme si de rien n’était. La tante n’y prit pas garde : du reste, elle était entrée sans saluer personne, se dirigeant vers ma mère, comme si elle eût été seule dans la maison.

– Tout de suite, allons ! habille-toi ! Tu viendras avec moi. On m’a sonné je ne sais quelle cloche. Me voici. Allons ! vite ! Ton baluchon !

Elle parlait par saccades. Son nez recourbé, fier, dans sa face brune, bilieuse, frémissait, se contractait de temps en temps, et ses yeux étincelaient.

De la veuve Pescatore, pas un mot.

Elle avait fini de pétrir, détrempé la farine et fait prendre la pâte ; maintenant, elle la brandissait en l’air et l’abattait très fort sur le pétrin ; elle répondait ainsi à ce que disait la tante. Celle-ci, alors, renforça la dose. Et celle-là, abattant chaque fois plus fort :

– Mais oui ! Mais sans doute ! Mais pourquoi pas ? Mais certainement.

Puis, comme si cela ne suffisait pas ; elle alla prendre le rouleau à pâte et le posa là, à côté d’elle, sur la maie, comme pour dire : « J’ai encore ceci ».

Mal lui en prit ! Tante Scholastique bondit, enleva furieusement un petit châle qu’elle avait sur ses épaules et le lança à ma mère :

– Tiens ! laisse tout. Va-t’en tout de suite !

Et elle alla se planter en face de la veuve Pescatore. Celle-ci pour ne pas l’avoir ainsi devant elle, poitrine contre poitrine, recula d’un pas, menaçante, comme si elle eût voulu brandir le rouleau, et alors tante Scholastique, ayant pris à deux mains sur la maie le gros emplâtre de pâte, le lui appliqua sur la tête, le lui tira en bas sur la face et, à poings fermés, là, là, là, sur le nez, sur les yeux, dans la bouche, où cela se trouvait. Ensuite elle attrapa ma mère par un bras et la traîna dehors avec elle.

Ce qui suivit fut pour moi seul. La veuve Pescatore, rugissant de rage, s’arracha la pâte de la figure, de ses cheveux tout poissés et vint me la jeter à la face, pendant que je riais, riais, dans une espèce de convulsion ; elle m’empoigna la barbe, me griffa ; puis, comme frappée de démence, se jeta par terre et commença à arracher ses vêtements, à se rouler frénétiquement sur le plancher, tandis que moi :

– Vos jambes ! vos jambes ! criais-je à la veuve Pescatore, par terre. Ne me montrez pas vos jambes, par charité !

*

* *

Je puis dire que, depuis ce moment, j’ai pris goût à rire de tous mes tourments. Je me vis, en cet instant, acteur d’une tragédie telle qu’on n’aurait pu en imaginer de plus bouffonne : ma mère, partie ainsi avec cette folle ; ma femme, là-bas, qui… laissons-la tranquille ; Marianne Pescatore ici par terre, et moi avec ma barbe tout emplâtrée, mon visage égratigné, tout ruisselant de sang, à moins que ce ne fût de larmes à force de rire. J’allai m’en assurer au miroir. C’étaient des larmes ; mais j’étais aussi bel et bien griffé. Ah ! cet œil, en ce moment, comme il me plut ! De désespoir il s’était mis à regarder plus que jamais ailleurs, pour son compte. Et je m’échappai, résolu à ne pas rentrer à la maison avant d’avoir trouvé de quoi faire subsister, même misérablement, ma femme et moi.

Du dépit enragé que je ressentais en ce moment en songeant à l’insouciance où j’avais vécu tant d’années, j’inférais pourtant facilement que mon malheur ne pouvait inspirer à personne, non seulement aucune compassion, mais pas même de considération. Je l’avais bien mérité. Un seul aurait pu en avoir pitié : celui qui avait fait main basse sur tout notre avoir ; mais figurez-vous comme Malagna pouvait sentir l’obligation de venir à mon secours après ce qui s’était passé entre moi et lui !

Le secours me vint de qui j’étais le moins en droit de l’attendre.

Après être resté toute la journée hors de chez moi, je tombai par aventure sur Pomino, qui, feignant de ne pas m’apercevoir, voulait passer au large.

– Pomino !

Il se tourna, la figure troublée, et s’arrêta, les yeux baissés :

– Que veux-tu ?

– Pomino ! répétai-je plus fort, en le secouant par une épaule et en riant de sa moue. Est-ce sérieux ?

Oh ! ingratitude humaine ! Il m’en voulait par surcroît. Pomino m’en voulait de la trahison dont j’étais coupable envers lui. Et je ne réussis pas à le convaincre que, au contraire, c’était lui qui m’avait trahi, et qu’il aurait dû me remercier.

J’étais encore comme ivre de cette mauvaise gaieté qui s’était emparée de moi depuis que je m’étais regardé au miroir.

– Vois-tu ces égratignures ? lui dis-je. C’est elle qui me les a faites !

– Ro… c’est-à-dire ta femme ?

– Sa mère !

Et je lui racontai comment et pourquoi. Il sourit, mais sobrement. Peut-être pensa-t-il qu’elle ne les lui aurait pas faites, à lui, ces égratignures, la veuve Pescatore : sa situation était bien différente de la mienne, et il avait un autre caractère et un autre cœur que moi.

Il me vint alors la tentation de lui demander pourquoi, s’il en avait tant de deuil, il n’avait pas épousé Romilda à temps, en prenant au besoin son vol avec elle, comme je le lui avais conseillé, avant que, par sa ridicule timidité ou par son indécision, je fusse tombé dans le malheur de m’en amouracher. J’avais encore bien des choses à lui dire, dans la surexcitation où je me trouvais ; mais je me contins. Je lui demandai seulement, en lui tendant la main, qui il fréquentait, ces jours-ci.

– Personne ! soupira-t-il alors. Personne ! Je m’ennuie mortellement.

– Marie-toi, mon ami ! Lui dis-je. Tu verras comme on a du plaisir !

Mais il secoua la tête, sérieusement, les yeux clos, et leva une main :

– Jamais ! jamais plus !

– Bravo ! Pomino, persévère ! Si tu désires de la compagnie, je suis à ta disposition, même pour toute la nuit, si tu veux.

Et je lui exposai la situation désespérée où je me trouvais. Pomino s’émut, en véritable ami, et m’offrit le peu d’argent qu’il avait sur lui. Je le remerciai de tout cœur et je lui dis que cette aide ne m’aurait servi à rien : le jour d’après, ç’aurait été tout comme. Il me fallait une place.

– Attends ! s’écria alors Pomino. Tu sais que mon père est maintenant au Municipe ?

– Non. Mais je l’imagine.

– Assesseur communal pour l’instruction publique.

– Cela, je ne l’aurais pas imaginé !

– Hier soir à dîner… Attends ! Tu connais Romitelli ?

– Non.

– Comment non ! Celui qui est là-bas, à la bibliothèque Boccamazza. Il est sourd, presque aveugle, tombé en enfance et ne se tient plus sur ses jambes. Hier soir, à dîner, mon père me disait que la bibliothèque est réduite en un état lamentable, qu’il faut y pourvoir au plus vite. Voilà une place pour toi !

– Bibliothécaire ! m’écriai-je.

– Pourquoi pas ? dit Pomino. Romitelli l’a bien fait…

Cette raison me convainquit.

Pomino me conseilla d’en faire parler à son père par tante Scholastique. Ce serait mieux.

Le jour suivant, j’allai visiter maman, et je lui en parlai à elle, car tante Scholastique ne voulut pas se montrer. Et c’est ainsi que, quatre jours plus tard, je devins bibliothécaire. Soixante lires par mois. Plus riche que la veuve Pescatore ! Je pouvais chanter victoire.

Dans les premiers mois, ce fut presque un amusement, avec ce Romitelli, à qui il n’y eut pas moyen de faire entendre que la commune l’avait admis à la retraite et que, par conséquent, il ne devait plus venir à la bibliothèque. Tous les matins, à la même heure, ni une minute avant, ni une minute après, je le voyais déboucher sur quatre pieds (y compris les deux cannes, une à chaque main, qui lui servaient plus que ses pieds). À peine arrivé, il sortait de la poche de son gilet un vieil oignon de cuivre et le suspendait au mur avec toute sa formidable chaîne ; il s’asseyait, ses deux bâtons entre les jambes, tirait de sa poche sa calotte, sa tabatière et un grand mouchoir à carreaux rouges et noirs ; il reniflait une grosse prise de tabac, s’essuyait, puis ouvrait le tiroir de la table et en extrayait un bouquin qui appartenait à la bibliothèque : Dictionnaire historique des musiciens, artistes et amateurs, morts et vivants, imprimé à Venise en 1758.

– Monsieur Romitelli ! lui criai-je, le voyant faire toutes ces opérations le plus tranquillement du monde, sans donner le moindre signe qu’il s’apercevait de ma présence.

Mais à qui parlais-je ? Il n’entendait même pas les coups de canon. Je le secouais par un bras, et alors il se tournait, clignait les yeux, contractait toute sa face pour me lorgner, puis me montrait ses dents jaunes, peut-être avec l’intention de me sourire ; ensuite il baissait la tête sur son livre, comme s’il eût voulu s’en faire un oreiller ; mais non, il lisait de cette façon, à deux centimètres de distance, avec un seul œil, et il lisait en répétant deux ou trois fois les noms et les dates, comme pour se les graver dans la mémoire.

Je restais à le regarder, stupéfié. Qu’est-ce que cela pouvait bien faire à cet homme, réduit à cet état, à deux pas de la tombe (il mourut, en effet, quatre mois après ma nomination au poste de bibliothécaire), qu’est-ce que cela pouvait lui faire ces dates-là et ces notices de musiciens, à lui, si sourd ?

De temps en temps dégringolaient des rayons deux ou trois livres, suivis de certains rats gros comme des lapins.

Ils furent pour moi comme la pomme de Newton.

– J’ai trouvé ! m’écriai-je, tout joyeux. Voilà l’occupation pour moi pendant que Romitelli lit son Birnbaum.

Et, pour commencer, j’écrivis une requête fort soignée, d’office, au distingué chevalier Gérôme Pomino, assesseur communal pour l’instruction publique, afin que la bibliothèque Boccamazza ou de Santa-Maria-Liberale fût en toute hâte pourvue d’une paire de chats pour le moins, dont l’entretien n’entraînerait presque aucune dépense pour la commune, attendu que les susdits animaux auraient de quoi se nourrir en abondance avec le produit de leur chasse. J’ajoutai qu’il ne serait pas mauvais aussi de pourvoir la bibliothèque d’une demi-douzaine de souricières et de « l’appât nécessaire », pour ne pas dire « fromage », mot vulgaire que, humble subalterne, je jugeai inconvenant de soumettre aux oreilles d’un assesseur communal pour l’instruction publique.

On m’envoya d’abord deux petits chats, si misérables qu’ils s’épouvantèrent tout de suite devant ces énormes rats ; et, pour ne pas mourir de faim, ils se fourraient eux-mêmes dans les ratières pour manger le fromage. Je les trouvais là tous les matins, maigres, hideux et si abattus qu’ils semblaient n’avoir plus ni la force ni l’envie de miauler.

Je réclamai, et alors arrivèrent deux beaux matous lestes et sérieux, qui, sans perdre de temps, se mirent à faire leur devoir. Les pièges aussi servaient et me donnaient les rats tout vivants. Or, un soir, dépité de l’imperturbable indifférence que conservait Romitelli devant mes fatigues et mes victoires, comme s’il eût eu seulement la charge, lui, de lire des livres de la bibliothèque et les rats celle de les manger, j’eus l’idée, avant de m’en aller, d’en introduire deux, vivants, dans le tiroir de la table. J’espérais, en le déconcertant, éviter, au moins pour la matinée suivante, l’ennui insupportable de la lecture accoutumée. Ah bien oui ! quand il eut ouvert le tiroir et qu’il sentit les deux bêtes lui filer sous le nez, il se tournait vers moi qui, déjà ne pouvais plus me contenir et éclatais de rire, et me demanda :

– Qu’est-ce qu’il y a eu ?

– Deux rats, monsieur Romitelli.

– Ah ! des rats… fit-il, tranquillement.

Ils étaient de la maison ; il y était habitué ; et il reprit, comme si rien n’était arrivé, la lecture de son bouquin.

*

* *

En peu de temps, je devins un tout autre homme qu’auparavant. Romitelli mort, je me trouvai seul, rongé d’ennui, dans cette petite église hors les murs, parmi tous ces livres, épouvantablement seul, et pourtant sans désir de compagnie. J’aurais pu n’y séjourner que quelques heures chaque jour, mais j’avais honte de me faire voir dans les rues du pays, ainsi réduit à la misère ; ma maison, je la fuyais comme une prison ; donc, mieux vaut rester ici, me répétai-je. Mais que faire ? La chasse aux rats, oui ; mais était-ce suffisant ?

La première fois qu’il m’advint de me trouver avec un livre entre les mains, pris ainsi au hasard, sans le savoir, sur un des rayons, j’éprouvai un frisson d’horreur. Me serais-je donc réduit, comme Romitelli, à sentir l’obligation de lire, moi, bibliothécaire, pour tous ceux qui ne venaient pas à la bibliothèque ? Et je lançai le livre par terre. Mais je le pris ensuite, et, – oui, messieurs, – je me mis à lire, moi aussi, et moi aussi d’un seul œil, puisque ce diable d’autre ne voulait rien entendre.

Je lus ainsi de tout un peu, sans ordre ; mais surtout des livres de philosophie. Ils pèsent si lourd, et pourtant qui s’en nourrit et se les incorpore vit parmi les nuages. Ils troublèrent encore plus mon cerveau, déjà passablement fêlé. Quand je sentais ma tête fumer, je fermais la bibliothèque et je me rendais par un petit sentier abrupt à ce coin de plage solitaire où le vieux Giaracanna avait eu sa tanière.

La vue de la mer me faisait tomber dans une stupeur d’épouvante, qui devenait peu à peu une oppression intolérable. Je m’asseyais sur la plage et je m’empêchais de la regarder en baissant la tête, mais j’en entendais le fracas tout le long de la rive, tandis que, lentement, lentement, je laissais glisser entre mes doigts le sable épais et lourd en murmurant :

– Mais pourquoi ? Mais pourquoi ?

Un jour, on vint me dire que ma femme avait été prise de douleurs. Je courus aussitôt à la maison ; mais plutôt pour me fuir moi-même, pour ne pas rester une minute de plus en tête à tête avec moi, à penser que j’allais avoir un enfant.

À peine arrivé à la porte, ma belle-mère me prit par le bras et me fit tourner sur moi-même :

– Un médecin ! Cours ! Romilda se meurt !

Je ne sentais plus mes jambes ; je ne savais plus de quel côté prendre, et, tout en courant, je disais : « Un médecin ! Un médecin ! ». Et les gens s’arrêtaient sur mon passage et prétendaient que je m’arrêtasse, moi aussi, pour expliquer ce qui m’était arrivé ; je me sentais tirer par les manches, je voyais devant moi des faces pâles, consternées ; je me dérobais, j’évitais tout le monde : « Un médecin ! Un médecin ! »

Et cependant le médecin était déjà chez moi. Lorsque, hors d’haleine, dans un état pitoyable, après avoir fait le tour de toutes les pharmacies, je rentrai désespéré et furibond, la première fille était déjà née ; on s’efforçait de faire venir l’autre à la lumière.

– Deux !

Il me semble les voir encore, là, dans le berceau, l’une à côté de l’autre ; elles se griffaient entre elles avec ces menottes si grêles et pourtant contractées comme par un instinct sauvage, l’instinct de ces deux petits chats que je retrouvais tous les matins dans les souricières. Elles non plus n’avaient pas la force de vagir, comme eux de miauler ; et cependant, voyez, elles se griffaient !

Je les séparai, et au premier contact de ces chairs tendres et froides, j’eus un frisson nouveau, un tremblement de tendresse, ineffable : elles étaient miennes !

L’une mourut quelques jours après ; mais l’autre voulut me donner le temps de m’attacher à elle, avec toute l’ardeur d’un père qui, n’ayant plus rien d’autre dans la vie, fait de sa petite créature le but unique, la raison exclusive de son existence ; elle eut la cruauté de mourir quand elle avait déjà presque un an, et s’était faite si jolie, avec ses boucles d’or que je m’enroulais autour des doigts, et que je baisais sans m’en rassasier jamais ! Elle m’appelait : « Papa », et je lui répondais aussitôt : « Ma fille » ; et elle de nouveau : « Papa » ; comme cela, sans raison, comme s’appellent les oiseaux entre eux.

Elle mourut en même temps que ma pauvre maman, le même jour et presque à la même heure. Je ne savais plus comment partager mes soins et ma peine. Je laissais ma petite qui reposait et je courais chez maman, qui ne se souciait pas d’elle-même et m’interrogeait sur sa petite-fille, se morfondant de ne plus pouvoir la revoir, l’embrasser pour la dernière fois. Et cela dura neuf jours, ce supplice ! Eh bien ! après neuf jours et neuf nuits de veille assidue, sans fermer l’œil même pour une minute… dois-je le dire ? – beaucoup peut-être auraient honte de le confesser, mais c’est pourtant bien humain – je ne sentis aucune peine sur le moment. Je restai un instant dans une morne stupeur, et je m’endormis. Il me fallut d’abord dormir. Puis, quand je me réveillai, la douleur m’assaillit, rageuse, féroce, pour ma petite fille, pour ma pauvre maman, qui n’étaient plus… Et je faillis en devenir fou. Toute une nuit j’errai par le pays et par la campagne, je ne sais avec quelles idées dans l’esprit ; je sais qu’à la fin je me retrouvai dans le domaine de l’Épinette, près du bief du moulin, et qu’un certain Philippe, vieux meunier, de garde là, me prit avec lui, me fit asseoir plus loin, sous les arbres, et me parla longtemps, longtemps de ma mère et aussi de mon père et des beaux temps lointains. Il me dit qu’il ne fallait pas pleurer et me désespérer ainsi, parce que c’était pour veiller sur ma petite fille, dans le monde de là-bas, que sa grand-mère était accourue, sa bonne petite grand-mère, qui lui parlerait de moi et ne la laisserait plus jamais seule…

Trois jours après, Robert, comme s’il avait voulu me payer mes larmes, m’envoya cinq cents lires. Il voulait que je pourvusse à une sépulture digne de notre mère, disait-il, mais tante Scholastique y avait déjà pensé.

Ces cinq cents francs restèrent quelque temps entre les pages d’un bouquin de la bibliothèque.

Puis ils servirent pour moi et furent, – comme je le dirai, – la cause de ma première mort.




 

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