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VIII: Adriano Meis
Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevan o voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d'encomio, quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr'uomo. Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire miseramente nella gora d'un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse sorte migliore. Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell'intimo, non rimanesse più in me alcuna traccia di lui. Ero solo ormai, e più solo di com'ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d'ogni legame e d'ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con I'avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio. Ah, un pajo d'ali! Come mi sentivo leggero! Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai, ragion d'essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal. Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi. « E innanzi tutto, » dicevo a me stesso, « avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d'essere stato due uomini. » Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio su quella barbaccia che non m'apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d'esser sorretti in punta con l'altra mano. Non m'arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano. Il brav'uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se era stato bravo. Mi parve troppo! - No, grazie, - mi schermii. - Lo riponga. Non vorrei fargli paura. Sbarrò tanto d'occhi, e: - A chi? - domandò. - Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev'essere antico... Era tondo, col manico d'osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi. Se era stato bravo! Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale; alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio! « Ah, quest'occhio, » pensai, « così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese. » Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d'aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d'una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi un po' ridicola e meschina. Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino. Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d'iconografia cristiana, in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me. Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell'enunciar la notizia ch'egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato bruttissimo. Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria da ispirato. - Ma si, ma si, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d'Alessandria! Sicuro, Cirillo d'Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più brutto degli uomini. L'altro, ch'era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un giogo, sosteneva invece che non c'era da fidarsi delle più antiche testimonianze. - Perché la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero delle sembianze corporee di lui. A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa. - Ma sì! - scattò il giovane barbuto. - Ma se non c'è più dubbio ormai! Quelle due statue rappresentano l'imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi. Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva esser contraria, perché quell'altro, incrollabile, guardando me, s'ostinava a ripetere : - Adriano! - ...Beronike, in greco. Da Beronike poi: Veronica... - Adriano! (a me). - Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima... - Adriano! (a me). - Perché la Beronike degli Atti di Pilato... - Adriano! Ripeté così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi rivolti a me. Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello scompartimento, m'affacciai al finestrino, per li con gli occhi: discutevano ancora, allontanandosi. A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa. - Chi lo dice? - gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si voltò per gridargli: - Camillo De Meis! Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a ripetere meccanicamente: - Adriano... -. Buttai subito via quel de e ritenni il Meis. « Adriano Meis! Si... Adriano Meis: suona bene... » Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare. « Adriano Meis. Benone! M'hanno battezzato. » Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era d'un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: « Vedrai, vedrai com'essa t'apparirà curiosa, ora, a guardarla cosi da fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini... » Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi piaceva d'immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano, spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso; all'ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa; alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide e col cappello del marito in capo. Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l'anellino di fede che mi stringeva ancora l'anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l'altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d'oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch'esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne? Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano. Tutto, attorno, mi s'era rifatto nero. Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell'ultimo anello! Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell'aperta campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che l'annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal. « No, no, » pensai, « in luogo più sicuro... Ma dove? » Il treno, in quella, si fermò a un'altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per Ia cui attuazione. provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l'umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella... Basta. Da una parte c'era scritto Uomini e dall'altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede. Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov'ero nato, ecc. - posatamente sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle più minute particolarità. Ero figlio unico: su questo mi pareva che non ci fosse da discutere. « Più unico di così... Eppure no! Chi sa quanti sono come me, nella mia stessa condizione, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una lettera in tasca, sul parapetto d'un ponte, su un fiume; e poi, invece di buttarsi giù, si va via tranquillamente, in America o altrove. Si pesca dopo alcuni giorni un cadavere irriconoscibile: sarà quello de la lettera lasciata sul parapetto del ponte. E non se ne parla più! E vero che io non ci ho messo la mia volontà: né lettera, né giacca, né cappello... Ma son pure come loro, con questo di più: che posso godermi senza alcun rimorso la mia libertà. Han voluto regalarmela, e dunque... » Dunque diciamo figlio unico. Nato... - sarebbe prudente non precisare alcun luogo di nascita. Come si fa? Non si può nascer mica su le nuvole, levatrice la luna, quantunque in biblioteca abbia letto che gli antichi, fra tanti altri mestieri, le facessero esercitare anche questo, e le donne incinte la chiamassero in soccorso col nome di Lucina. Su le nuvole, no; ma su un piroscafo, sì, per esempio, si può nascere. Ecco, benone! nato in viaggio. I miei genitori viaggiavano... per farmi nascere su un piroscafo. Via, via, sul serio! Una ragione plausibile per mettere in viaggio una donna incinta, prossima a partorire... O che fossero andati in America i miei genitori? Perché no? Ci vanno tanti... Anche Mattia Pascal, poveretto, voleva andarci. E allora queste ottantadue mila lire diciamo che le guadagnò mio padre, là in America? Ma che! Con ottantadue mila lire in tasca, avrebbe aspettato prima, che la moglie mettesse al mondo il figliuolo, comodamente, in terraferma. E poi, baje! Ottantadue mila lire un emigrato non le guadagna più cosi facilmente in America. Mio padre... - a proposito, come si chiamava? Paolo. Sì: Paolo Meis. Mio padre, Paolo Meis, s'era illuso, come tanti altri. Aveva stentato tre, quattr'anni; poi, avvilito, aveva scritto da Buenos-Aires una lettera al nonno... Ah, un nonno, un nonno io volevo proprio averlo conosciuto, un caro vecchietto, per esempio, come quello ch'era sceso testé dal treno, studioso d'iconografia cristiana. Misteriosi capricci della fantasia! Per quale inesplicabile bisogno e donde mi veniva d'immaginare in quel momento mio padre, quel Paolo Meis, come uno scavezzacollo? Ecco, sì, egli aveva dato tanti dispiaceri al nonno: aveva sposato contro la volontà di lui e se n'era scappato in America. Doveva forse sostenere anche lui che Cristo era bruttissimo. E brutto davvero e sdegnato l'aveva veduto là, in America, se con la moglie lì lì per partorire, appena ricevuto il soccorso dal nonno, se n'era venuto via. Ma perché proprio in viaggio dovevo esser nato io? Non sarebbe stato meglio nascere addirittura in America, nell'Argentina, pochi mesi prima del ritorno in patria de' miei genitori? Ma si! Anzi il nonno s'era intenerito per il nipotino innocente; per me, unicamente per me aveva perdonato il figliuolo. Così io, piccino piccino, avevo traversato l'Oceano, e forse in terza classe, e durante il viaggio avevo preso una bronchite e per miracolo non ero morto. Benone! Me lo diceva sempre il nonno. Io però non dovevo rimpiangere come comunemente si suol fare, di non esser morto, allora di pochi mesi. No: perché, in fondo, che dolori avevo sofferto io, in vita mia? Uno solo, per dire la verità: quello de la morte del povero nonno, col quale ero cresciuto. Mio padre, Paolo Meis, scapato e insofferente di giogo, era fuggito via di nuovo in America, dopo alcuni mesi, lasciando la moglie e me col nonno; e là era morto di febbre gialla. A tre anni, io ero rimasto orfano anche di madre, e senza memoria perciò de' miei genitori; solo con queste scarse notizie di loro. Ma c'era di più! Non sapevo neppure con precisione il mio luogo di nascita. Nell'Argentina, va bene! Ma dove? Il nonno lo ignorava, perché mio padre non gliel'aveva mai detto o perché se n'era dimenticato, e io non potevo certamente ricordarmelo. Riassumendo: a) figlio unico di Paolo Meis; - b) nato in America nell'Argentina, senz'altra designazione; - c) venuto in Italia di pochi mesi (bronchite); - d) senza memoria né quasi notizia dei genitori; - e) cresciuto col nonno. Dove? Un po' da per tutto. Prima a Nizza. Memorie confuse: Piazza Massena, la Promenade, Avenue de la Gare... Poi, a Torino. Ecco, ci andavo adesso, e mi proponevo tante cose: mi proponevo di scegliere una via e una casa, dove il nonno mi aveva lasciato fino all'età di dieci anni affidato alle cure di una famiglia che avrei immaginato lì sul posto, perché avesse tutti i caratteri del luogo; mi proponevo di vivere, o meglio d'ine con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d'Adriano Meis piccino. Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d'una vita non realmente vissuta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi procurò una gioja strana e nuova, non priva d'una certa mestizia, nei primi tempi del mio vagabondaggio. Me ne feci un'occupazione. Vivevo non nel presente soltanto, ma anche per il mio passato cioè per gli anni che Adriano Meis non aveva vissuti. Nulla o ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s'inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sé! Or che cos'ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé, pur calata nella realtà. Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo gl'infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate. Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione. No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia. E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per comporne a poco a poco l'infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che essa alla fine assunse nella mia mente una consistenza quasi reale. Non volli immaginarmi una nuova mamma. Mi sarebbe parso di profanar la memoria viva e dolorosa della mia mamma vera. Ma un nonno, sì, il nonno del mio primo fantasticare, volli crearmelo. Oh, di quanti nonnini veri, di quanti vecchietti inseguiti e studiati un po' a Torino, un po' a Milano, un po' a Venezia, un po' a Firenze, si compose quel nonnino mio! Toglievo a uno qua la tabacchiera d'osso e il pezzolone a dadi rossi e neri, a un altro là il bastoncino, a un terzo gli occhiali e la barba a collana, a un quarto il modo di camminare e di soffiarsi il naso, a un quinto il modo di parlare e di ridere; e ne venne fuori un vecchietto fino un po' bizzoso, amante delle arti, un nonnino spregiudicato, che non mi volle far e un corso regolare di studii, preferendo d'istruirmi lui, con la viva conversazione e conducendomi con sé, di città in città, per musei e gallerie. Visitando Milano, Padova, Venezia, Ravenna, Firenze, Perugia, lo ebbi sempre con me, come un'ombra, quel mio nonnino fantasticato, che più d'una volta mi parlò anche per bocca d'un vecchio cicerone. Ma io volevo vivere anche per me, nel presente. M'assaliva di tratto in tratto l'idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava tutto lo spirito. Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. Ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso al ponte che ritiene per una pescaja l'impeto delle acque che vi fremono irose: l'aria era d'una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza; e io, guardando, mi sentii così ebro della mia libertà, che temetti quasi d'impazzire, di non potervi resistere a lungo. Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi, scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere. « Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così... Ma, via' che te n'importa? Va benone! Se non fosse per quest'occhio di lui di quell'imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella stranezza un po' spavalda della tua figura. Fai un po' ridere le donne, ecco. Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell'altro non avesse portato i capelli così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne ridono... ridi anche tu: è il meglio che possa fare. » Vivevo, per altro, con me e di me, quasi esclusivamente. Scambiavo appena qualche parola con gli albergatori, coi camerieri, coi vicini di tavola, ma non mai per voglia d'attaccar discorso. Dal ritegno anzi che ne provavo, mi accorsi ch'io non avevo affatto il gusto della menzogna. Del resto, anche gli altri mostravan poca voglia di parlare con me: forse a causa del mio aspetto, mi prendevano per uno straniero. Ricordo che, visitando Venezia, non ci fu verso di levar dal capo a un vecchio gondoliere ch'io fossi tedesco, austriaco. Ero nato, sì, nell'Argentina ma da genitori italiani. La mia vera, diciamo così « estraneità » era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più niente io; nessuno stato civile mi registrava, tranne quello di Miragno, ma come morto, con l'altro nome. Non me n'affliggevo; tuttavia per austriaco, no, per austriaco non mi piaceva di passare. Non avevo avuto mai occasione di fissar la mente su la parola « patria ». Avevo da pensare a ben altro, un tempo! Ora, nell'ozio cominciavo a prender l'abitudine di riflettere su tante cose che non avrei mai creduto potessero anche per poco interessarmi. Veramente, ci cascavo senza volerlo, e spesso mi avveniva di scrollar le spalle, seccato. Ma di qualche cosa bisognava pure che mi occupassi, quando mi sentivo stanco di girare, di vedere. Per sottrarmi alle riflessioni fastidiose e inutili, mi mettevo talvolta a riempire interi fogli di carta della mia nuova firma, provandomi a scrivere con altra grafia, tenendo la penna diversamente di come la tenevo prima. A un certo punto però stracciavo la carta e buttavo via la penna. Io potevo benissimo essere anche analfabeta! A chi dovevo scrivere? Non ricevevo né potevo più ricever lettere da nessuno. Questo pensiero, come tanti altri del resto, mi faceva dare un tuffo nel passato. Rivedevo allora la casa, Ia biblioteca, le vie di Miragno, la spiaggia; e mi domandavo: « Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse sì per gli occhi del mondo. Che farà? ». E me la immaginavo, come tante volte e tante l'avevo veduta là per casa; e m'immaginavo anche la vedova Pescatore, che imprecava certo alla mia memoria. « Nessuna delle due, » pensavo, « si sarà recata neppure una volta a visitar nel cimitero quel pover'uomo, che pure è morto così barbaramente. Chi sa dove mi hanno seppellito! Forse la zia Scolastica non avrà voluto fare per me la spesa che fece per la mamma; Roberto, tanto meno; avrà detto: - Chi gliel'ha fatto fare? Poteva vivere infine con due lire al giorno, bibliotecario -. Giacerò come un cane, nel campo dei poveri... Via, via, non ci pensiamo! Me ne dispiace per quel pover'uomo, il quale forse avrà avuto parenti più umani de' miei che lo avrebbero trattato meglio. - Ma, del resto, anche a lui, ormai, che glien'importa? S'è levato il pensiero! » Seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare. Volli spingermi oltre l'Italia; visitai le belle contrade del Reno, fino a Colonia, seguendo il fiume a bordo d'un piroscafo; mi trattenni nelle città principali: a Mannheim, a Worms, a Magonza, a Bingen, a Coblenza... Avrei voluto andar più sù di Colonia, più sù della Germania, almeno in Norvegia; ma poi pensai che io dovevo imporre un certo freno alla mia libertà. Il denaro che avevo meco doveva servirmi per tutta la vita, e non era molto. Avrei potuto vivere ancora una trentina d'anni; e così fuori d'ogni legge, senza alcun documento tra le mani che comprovasse, non dico altro, la mia esistenza reale, ero nell'impossibilità di procacciarmi un qualche impiego; se non volevo dunque ridurmi a mal partito, bisognava che mi restringessi a vivere con poco. Fatti i conti, non avrei dovuto spendere più di duecento lire al mese: pochine; ma già per ben due anni avevo anche vissuto con meno, e non io solo. Mi sarei dunque adattato. In fondo, ero già un po' stanco di quell'andar girovagando sempre solo e muto. Istintivamente cominciavo a sentir il bisogno di un po' di compagnia. Me ne accorsi in una triste giornata di novembre, a Milano, tornato da poco dal mio giretto in Germania. Faceva freddo, ed era imminente la pioggia, con la sera. Sotto un fanale scorsi un vecchio cerinajo, a cui la cassetta, che teneva dinanzi con una cinta a tracolla, impediva di ravvolgersi bene in un logoro mantelletto che aveva su le spalle. Gli pendeva dalle pugna strette sul mento un cordoncino, fino ai piedi. Mi chinai a guardare e gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente, lì rincantucciato. Povera bestiolina! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi rispose di sì e che me l'avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto: ah, si sarebbe fatto un bel cane, un gran cane, quella bestiola: - Venticinque lire... Seguitò a tremare il povero cucciolo, senza inorgoglirsi punto di quella stima: sapeva di certo che il padrone con quel prezzo non aveva affatto stimato i suoi futuri meriti, ma la imbecillità che aveva creduto di leggermi in faccia. Io intanto, avevo avuto il tempo di riflettere che, comprando quel cane, mi sarei fatto sì, un amico fedele e discreto, il quale per amarmi e tenermi in pregio non mi avrebbe mai domandato chi fossi veramente e donde venissi e se le mie carte fossero in regola; ma avrei dovuto anche mettermi a pagare una tassa: io che non ne pagavo più! Mi parve come una prima compromissione della mia libertà, un lieve intacco ch'io stessi per farle. - Venticinque lire? Ti saluto! - dissi al vecchio cerinajo. Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che già il cielo cominciava a mandare, m'allontanai, considerando però, per la prima volta, che era bella, sì, senza dubbio, quella mia libertà così sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva neppure di comperarmi un cagnolino.

 

VIII

ADRIEN MEIS

Aussitôt je me mis à faire de moi un autre homme. Je n’avais que peu ou point à me louer de cet infortuné qu’ils avaient voulu à toute force faire finir misérablement dans le bief d’un moulin. Après toutes les sottises qu’il avait commises, il ne méritait peut-être pas un sort meilleur. À présent, j’aurais aimé que, non seulement extérieurement, mais au plus intime de l’être, il ne restât plus en moi aucune trace de lui.

J’étais seul désormais, et je n’aurais pu être plus seul sur la terre, délivré dans le présent de tout lien, absolument maître de moi, soulagé du fardeau de mon passé et avec devant moi un avenir que je pourrais façonner à ma guise.

Le sentiment que mes vicissitudes passées m’avaient donné de la vie ne devait plus avoir pour moi désormais de raison d’être. Je devais me faire une nouvelle conception de l’existence, sans le moins du monde m’embarrasser de la désastreuse expérience de feu Mathias Pascal.

« Avant tout, me disais-je, j’aurai soin de ma liberté ; je la mènerai promener par des routes planes et toujours nouvelles, et jamais je ne lui ferai porter aucun vêtement alourdissant. Je fermerai les yeux et je passerai vite dès que le spectacle de la vie se présentera quelque part sous une forme désagréable. Je ferai en sorte de fréquenter de préférence les choses qu’on a coutume d’appeler inanimées, et j’irai à la recherche des belles vues, de sites pittoresques et d’endroits tranquilles. Je me donnerai peu à peu une nouvelle éducation ; je me transformerai avec un zèle patient et affectueux, de façon à pouvoir dire, à la fin, que je n’ai pas seulement vécu deux vies, mais que j’ai été deux hommes. »

Déjà, à Alenga, avant de partir, j’étais entré chez un barbier pour me faire raccourcir la barbe ; j’aurais voulu me la faire enlever tout à fait, en même temps que les moustaches, mais la crainte de faire naître quelque soupçon dans ce petit pays m’avait retenu.

Le barbier était encore tailleur ; un vieux, les reins comme ankylosés par la longue habitude de se tenir courbé, et il portait ses lunettes sur le bout de son nez. Il devait être tailleur plus que barbier. Il tomba comme un fléau de Dieu sur cette barbasse qui ne m’appartenait plus, armé de certaines cisailles de maître tondeur de laine, qui avaient besoin d’être soutenues à la pointe avec l’autre main. Je ne me risquai même pas à souffler : je fermai les yeux, et je ne les rouvris que quand je me sentis secouer tout doucement.

Le brave homme, tout en sueur, me tendait un petit miroir pour que je pusse lui dire s’il avait bien opéré.

J’entrevis, d’après cette première exécution, quel monstre allait bientôt naître de la nécessaire altération du signalement de Mathias Pascal. Encore une raison de le haïr ! Le menton ridiculement petit, pointu et rentré, que Mathias avait caché pendant tant d’années sous cette large barbe, me parut une trahison. À présent, il me faudrait la porter découverte, cette petite chose absurde ! Et quel nez il m’avait laissé en héritage ! Et cet œil !

« Ah ! celui-là, pensai-je, toujours en extase d’un côté, restera toujours sien dans ma nouvelle face ! Je ne pourrai faire autre chose que de le cacher le mieux possible derrière une paire de lunettes à verres de couleur, qui vont joliment contribuer à me rendre l’aspect plus aimable. Je me laisserai pousser les cheveux, et avec ce beau front spacieux, avec mes lunettes et tout rasé, j’aurai l’air d’un philosophe allemand. »

Il n’y avait rien à y faire : je devais être philosophe par force, avec ce bel aspect. Eh bien ! patience : j’allais m’armer d’une philosophie discrète et souriante pour passer au milieu de cette pauvre humanité, qui aurait bien de la peine, malgré mes bonnes intentions, à ne pas me paraître un peu ridicule et mesquine.

Quant au nom, il me fut pour ainsi dire offert dans le train qui m’emmenait d’Alenga à Turin.

Je voyageais avec deux messieurs qui discutaient avec animation d’iconographie chrétienne, où ils faisaient tous deux preuve d’une grande érudition.

L’un, le plus jeune, à la face pâle, envahie par une barbe noire rude et touffue, semblait éprouver une grande satisfaction à soutenir son opinion.

L’autre, un petit vieux très maigre, tranquille dans sa pâleur ascétique, mais pourtant avec un pli aux angles de la bouche, qui traduisait une ironie subtile, soutenait qu’il n’y avait pas à se fier aux anciens témoignages.

Un moment, ils vinrent à parler de Véronique et de deux statues de la ville de Panéade.

– Mais oui ! éclata le jeune homme barbu, il n’y a plus de doute aujourd’hui ! Ces deux statues représentent l’empereur !

Le petit vieux continuait à soutenir pacifiquement l’opinion contraire. L’autre, inébranlable, en me regardant, s’obstinait à répéter :

– Hadrien !

– Beronikè en grec. Puis de Béronikè : Vérénique… ou bien Veronica vera icon, déformation très probable, car la Béronikè des Actes de Pilate…

– Hadrien ! Hadrien avec la ville agenouillée à ses pieds.

Il répéta ainsi Hadrien ! je ne sais plus combien de fois, les yeux tournés vers moi.

Quand ils descendirent tous deux à une station et me laissèrent seul dans le compartiment, je me penchai à la portière pour les suivre des yeux : ils discutaient encore en s’éloignant. À un certain moment pourtant, le petit vieux perdit patience et prit sa course.

– Qui le dit ? lui demanda très fort le jeune homme avec un air de défi.

L’autre se retourna pour lui crier :

– Joseph de Meis !

Il me sembla que lui aussi me criait ce nom, à moi qui en étais encore à répéter machinalement : « Hadrien… » Je rejetai tout de suite ce de et je gardai le Meis.

– Adrien Meis ! Oui… Adrien Meis ; cela sonne bien…

Il me sembla aussi que ce nom s’adaptait à ma face rasée, avec des lunettes et des cheveux longs.

– Adrien Meis. Parfaitement. Ils m’ont baptisé.

Tout souvenir de ma vie antérieure retranché net, l’esprit arrêté à la résolution de recommencer une nouvelle vie, j’étais envahi et soulevé comme par une allégresse enfantine ; je me sentais la conscience comme redevenue vierge et transparente, et l’esprit alerte et prêt à tirer profit de tout pour la construction de mon nouveau moi. Cependant dans mon âme régnait un tumulte de joie à cette liberté nouvelle. Je n’avais jamais vu ainsi les hommes et les choses ; l’air entre eux et moi avait été tout à coup balayé de ses nuages, et les nouvelles relations qui devaient s’établir entre nous se présentaient très faciles. J’allais avoir bien peu désormais à leur demander pour ma satisfaction intime.

Je souriais. J’avais envie de sourire ainsi de tout et à toute chose : aux arbres de la campagne, par exemple, qui couraient au-devant de nous avec d’étranges attitudes dans leur fuite illusoire ; aux villas éparses çà et là, où je me plaisais à imaginer des propriétaires aux joues gonflées d’injures contre le brouillard ennemi des oliviers, ou les bras levés et les poings fermés contre le ciel, qui ne voulait pas envoyer de l’eau ; et je souriais aux petits oiseaux, qui se débandaient épouvantés devant cette chose noire qui courait par la campagne avec fracas, à l’ondoiement des fils télégraphiques, par lesquels passaient certaines nouvelles aux journaux, comme celle de Miragno au sujet de mon suicide dans le moulin de l’Épinette ; aux pauvres femmes des cantonniers, qui présentaient le drapeau enroulé, avec le chapeau de leur mari sur la tête.

Seulement, à un certain moment, mon regard tomba sur l’alliance qui m’entourait encore l’annulaire de la main droite. J’en reçus une violente secousse ; je clignai les yeux et m’étreignis la main avec l’autre main, essayant de m’arracher ce petit cercle d’or, comme cela, à la dérobée pour ne plus le voir. Je pensai qu’il s’ouvrait et qu’à l’intérieur y étaient gravés deux noms : Mathias – Romilda et la date du mariage. Que devais-je en faire ?

J’ouvris les yeux et restai un instant, les sourcils froncés, à le contempler dans la paume de ma main.

Tout, autour de moi, était redevenu sombre.

C’était, là encore, un reste de chaîne qui me liait au passé ! Petit anneau, léger par lui-même et pourtant si lourd ! Mais la chaîne était déjà brisée ; donc, au diable ce dernier anneau !

J’allais le jeter par la fenêtre, mais je me retins. Favorisé aussi exceptionnellement par le hasard, je ne pouvais plus me fier à lui ; je devais désormais croire tout possible, jusqu’à ceci : qu’un anneau jeté en pleine campagne, trouvé par rencontre par un paysan, passant de main en main, avec ces deux noms gravés à l’intérieur et la date, ferait découvrir la vérité, c’est-à-dire que le noyé de l’Épinette n’était pas le bibliothécaire : Mathias Pascal.

« Non, non, pensai-je ; dans un lieu plus sûr… mais où ? »

À ce moment, le train s’arrêta à une autre station… Je regardai, et tout à coup me vint une idée, que j’éprouvai une certaine répugnance à réaliser. Je dis cela pour me servir d’excuse auprès de ceux qui aiment le beau geste. D’un côté était écrit« Hommes » et de l’autre« Dames ». C’est là que tomba le gage de ma foi.

Ensuite, je me mis à penser à Adrien Meis et à lui imaginer un passé, à me demander qui fut mon père, où j’étais né, etc., cela en m’efforçant de voir et de fixer tout, dans les plus petits détails.

J’étais fils unique : là-dessus, pas de discussion possible, à ce qu’il me semblait.

Né… ? Il serait prudent de ne préciser aucun lieu de naissance. Comment faire ? On ne peut naître sur un nuage, avec la lune comme sage-femme, bien qu’à la bibliothèque j’aie lu que les Anciens, parmi tant d’autres métiers, lui faisaient exercer aussi celui-là sous le nom de Lucine.

Sur un nuage, non ; mais sur un paquebot, oui, par exemple, on peut y naître. Voilà ! parfait ? né en voyage. Mes parents voyageaient en Amérique. Pourquoi pas ? On y va tant !… Lui aussi, Mathias Pascal, le pauvret, voulait y aller. Et alors, ces quatre-vingt-deux mille lires, nous disons que mon père les a gagnées là-bas, en Amérique ? Mais quoi ? Avec quatre-vingt-deux mille lires en poche, il aurait attendu d’abord que sa femme mît son enfant au monde, commodément sur la terre ferme. Et puis, sottises ! Quatre-vingt-deux mille lires, un émigré ne les gagne plus si facilement en Amérique. Mon père… À propos, comment s’appelait-il ? Paul, oui, Paul Meis. Paul Meis s’était fait des illusions comme tant d’autres. Il avait peiné trois ou quatre ans ; puis, découragé, il avait écrit de Buenos-Aires une lettre au grand-père.

Ah ! un grand-père, je tenais absolument à l’avoir connu, un bon petit vieux, par exemple comme celui qui venait de descendre du train, passionné pour l’iconographie chrétienne.

Mystérieux caprices de l’imagination ! Par quel inexplicable besoin et d’où me venait la fantaisie d’imaginer à ce moment mon père, ce Paul Meis, comme un mauvais garnement ? Eh bien ! oui, il avait donné bien du tourment au grand-père : il s’était marié contre sa volonté et s’était sauvé en Amérique.

Mais pourquoi être né justement en voyage ? N’aurait-il pas mieux valu naître tout de suite en Amérique, dans l’Argentine, quelques mois avant le retour au pays de mes parents ? Mais oui ! Même le grand-père s’était attendri sur son petit-fils innocent ; c’est pour moi, uniquement pour moi qu’il avait pardonné à son fils. Ainsi, tout petit, j’avais traversé l’océan, et peut-être en troisième classe, et pendant le voyage j’avais attrapé une bronchite et c’est par miracle que je n’étais pas mort. Très bien ! Mon grand-père me le disait toujours. Pourtant je ne devrais pas regretter, comme on fait communément, de ne pas être mort, alors, à quelques mois. Non : parce qu’au fond, quelles peines avais-je souffertes, moi, dans ma vie ? Une seule, pour dire la vérité : celle de la mort de mon grand-père, chez qui j’avais grandi. Mon père, Paul Meis, mauvais sujet et impatient du joug, s’était enfui de nouveau en Amérique, après quelques mois, abandonnant sa femme et moi avec le grand-père ; et là-bas il était mort de la fièvre jaune. À trois ans, j’étais resté orphelin aussi de mère, et sans aucun souvenir par conséquent de mes parents, avec ces quelques rares renseignements sur eux. Mais il y avait plus ! Je ne savais même pas avec précision mon lieu de naissance. Dans l’Argentine, très bien ! mais où ? Mon grand-père l’ignorait parce que mon père ne le lui avait jamais dit ou parce qu’il l’avait oublié, et moi je ne pouvais certainement pas me le rappeler.

En résumé :

a) Fils unique de Paul Meis ; b) né en Amérique, dans l’Argentine, sans autre désignation ; c) venu en Italie à quelques mois (bronchite) ; d) sans souvenir ni renseignements, à peu de chose près, sur mes parents ; e) grandi chez mon grand-père.

Où ? Un peu partout. D’abord à Nice. Souvenirs confus : place Masséna, promenade des Anglais, avenue de la Gare… Puis à Turin.

J’y allais à présent et me proposais bien des choses : je me proposais de choisir une rue et une maison, où mon grand-père m’avait laissé jusqu’à l’âge de dix ans, confié aux soins d’une famille que j’imaginerais là, sur les lieux, pour qu’elle eût, comme on dit maintenant, plus de couleur locale ; je me proposais de vivre, ou mieux de suivre par l’imagination, là, sur la réalité, la vie d’Adrien Meis, petit enfant.

*

* *

Cette construction fantaisiste d’une vie non réellement vécue me procura une joie étrange non exempte d’une certaine mélancolie, dans les premiers temps de mon vagabondage. Je m’en fis une occupation. Je vivais non seulement dans le présent, mais encore dans mon passé, c’est-à-dire pour les années qu’Adrien Meis n’avait pas vécues.

Je suivais par les rues et dans les jardins les gamins de cinq à dix ans, et j’étudiais leurs mouvements, leurs jeux, et je recueillais leurs expressions, pour en composer l’enfance d’Adrien Meis. J’y réussis si bien qu’elle prit à la fin dans mon esprit une consistance presque réelle.

Je ne voulus pas imaginer une nouvelle maman. J’aurais cru profaner la mémoire vive et douloureuse de ma vraie maman. Mais un grand-père, si, le grand-père de mes premières imaginations, je voulus me le créer.

Oh ! de combien de vrais grands-pères, de combien de petits vieux suivis et étudiés un peu à Turin, un peu à Milan, un peu à Venise, un peu à Florence, se composa mon grand-père ! Je prenais à l’un sa tabatière, à l’autre sa canne, à un troisième ses lunettes et sa barbe en collier, à un quatrième sa façon de marcher et de se moucher, à un cinquième sa façon de parler et de rire ; et il en résulta un fin petit vieillard, un peu vif : amant des arts, un homme sans préjugés, qui ne voulut pas me faire suivre un cours d’études régulier, aimant mieux m’instruire, lui, de sa vive conversation, et me conduisant avec lui, de ville en ville, par les musées et les galeries.

En visitant Milan, Padoue, Venise, Ravenne, Florence, Pérouse, je l’eus sans cesse avec moi, comme une ombre, ce petit grand-père imaginaire, qui plus d’une fois, me parla même par la bouche d’un vieux cicérone.

Mais je voulais vivre aussi pour moi, dans le présent. De temps en temps me revenait l’idée de ma liberté sans limites, unique, et j’éprouvais une félicité subite, si forte qu’elle me causait comme une espèce d’égarement, et cette félicité me suivait partout. Ah ! je me rappelle un coucher de soleil, à Turin, dans les premiers mois de ma nouvelle vie, sur le Lungopo, près du pont qui arrête pour une pêcherie l’élan de ses eaux toutes frémissantes de colère : l’air était d’une transparence merveilleuse, toutes les choses dans l’ombre paraissaient émaillées dans cette limpidité, et moi, en regardant, je me sentis si heureux que j’eus presque peur de devenir fou.

J’avais déjà effectué ma transformation extérieure : tout rasé, avec une paire de lunettes bleu clair et les cheveux longs, artistement négligés, je semblais vraiment un autre ! Je m’arrêtais parfois à converser avec moi-même devant un miroir et je me mettais à rire.

« Adrien Meis ! Heureux homme ! C’est dommage qu’il te faille être ainsi accommodé… Mais, bah ! que t’importe ! Tout va bien ! Si ce n’était cet œil de l’autre, de cet imbécile, tu ne serais pas si laid, après tout, dans l’étrangeté un peu effrontée de ta figure. Tu fais un peu rire les femmes, voilà. Mais au fond, ce n’est pas ta faute, à toi. Si cet autre n’avait pas porté les cheveux si courts ! Mais patience ! Quand les femmes rient… ris toi aussi : c’est ce que tu as de mieux à faire… »

Je vivais, d’ailleurs, avec moi et de moi presque exclusivement. J’échangeais à peine quelques paroles avec les hôteliers, les garçons, mes voisins de table, mais jamais avec le désir d’engager la conversation. Et même à la répugnance que j’en éprouvais, je reconnus que je n’avais nullement le goût du mensonge. Du reste, les autres non plus ne montraient guère d’envie de causer avec moi : peut-être à cause de mon aspect, ils me prenaient pour un étranger. Je me rappelle qu’en visitant Venise il n’y eut pas moyen d’enlever de la tête à un vieux gondolier que j’étais Allemand, Autrichien. Sans doute, j’étais né dans l’Argentine, mais de parents italiens. Ma vraie « extraéité », si on peut dire, était bien autre, et j’étais seul à la savoir : c’est que je n’étais plus rien du tout ; aucun état civil ne me portait sur ses registres, sauf celui de Miragno, mais comme mort, avec l’autre nom.

Je ne m’en affligeais pas ; toutefois passer pour Autrichien, non, cela ne me plaisait guère ! Je n’avais jamais eu l’occasion de fixer mon esprit sur le mot « patrie ». J’avais bien autre chose à penser autrefois ! Maintenant, dans le loisir, je commençais à prendre l’habitude de réfléchir sur bien des choses auxquelles je ne me serais jamais cru capable de m’intéresser le moins du monde. Pour me soustraire aux réflexions fastidieuses et inutiles, je me mettais quelquefois à remplir des feuilles de papier entières de ma nouvelle signature, m’essayant à prendre une autre écriture, tenant la plume autrement que je la tenais autrefois. Mais au bout d’un certain temps je déchirais le papier et je jetais la plume. Je pouvais fort bien être illettré ! À qui avais-je à écrire ? Je ne recevais et ne pouvais plus recevoir de lettres de personne.

Cette pensée me replongeait dans le passé. Je me demandais : « Romilda est-elle encore vêtue de noir ? Peut-être que oui ; pour le monde. Que peut-elle faire ? »

Et je me représentais aussi la veuve Pescatore, en train de lancer des imprécations contre ma mémoire.

« Aucune des deux, pensais-je, ne sera allée seulement une fois visiter, au cimetière, ce pauvre homme, qui pourtant est mort d’une façon si atroce. Qui sait où ils m’ont enseveli ? Peut-être la tante Scholastique n’aura pas voulu faire pour moi la dépense qu’elle fit pour ma mère ; Robert, encore moins. Je serai couché comme un chien, dans le champ des pauvres… Bah ! bah ! n’y pensons pas ! J’en suis fâché pour ce pauvre homme, qui avait peut-être des parents plus humains que les miens. Mais, du reste, à lui aussi maintenant, que lui importe ? Il s’est enlevé la peine de penser ! »

Je continuai encore quelque temps à voyager. Je voulus pousser plus loin, hors d’Italie ; je visitai les belles contrées du Rhin, jusqu’à Cologne, en suivant le fleuve, à bord d’un vapeur ; je m’arrêtai dans les villes principales : à Mannheim, à Worms, à Mayence, à Bingen, à Coblenz. J’aurais voulu aller plus loin que Cologne, plus loin que l’Allemagne, au moins en Norvège ; mais ensuite, je pensai que je devais imposer un certain frein à ma liberté. L’argent que j’avais sur moi devait me servir pour toute la vie, et il n’y en avait pas beaucoup. Je pourrais vivre encore une trentaine d’années, et ainsi, hors de toute loi, sans aucun document entre les mains qui prouvât ne fût-ce que mon existence réelle, j’étais dans l’impossibilité de me procurer aucun emploi ; si donc, je ne voulais pas me mettre en mauvaise posture, il me fallait me réduire à vivre de peu. Tout compte fait, je ne devrais pas dépenser plus de deux cents francs par mois ; c’est peu. Mais j’avais déjà vécu deux ans avec moins encore, et pas seul. Je m’en accommoderais donc.

Dans le fond, j’étais déjà un peu fatigué de ce vagabondage solitaire et muet. Instinctivement, je commençais à sentir le besoin d’un peu de compagnie. Je m’en aperçus une triste journée de novembre, à Milan, peu après mon petit tour en Allemagne.

Il faisait froid et la pluie menaçait de tomber avec le soir. Sous un bec de gaz, j’aperçus un vieux marchand d’allumettes ; sa boîte, qu’il tenait devant lui, suspendue à son cou par une bretelle, l’empêchait de se bien envelopper dans un petit manteau en loques qu’il avait sur les épaules. De ses poings pressés contre son menton pendait une ficelle jusqu’à ses pieds. Je me penchai pour regarder et je découvris entre ses souliers déchirés un petit chien minuscule de quelques jours, qui tremblait de tout son corps et gémissait continuellement, en se rencognant. Pauvre bête ! Je demandai au vieux s’il la vendait. Il me répondit que oui et que même il ne me la vendrait pas cher, bien qu’elle valût beaucoup : oh ! elle deviendrait un très beau chien !

– Vingt-cinq lires…

La pauvre bête continua à trembler, sans nullement s’enorgueillir de cette estimation : elle savait à coup sûr que son maître avait estimé à ce prix, non pas ses futurs mérites, mais l’imbécillité qu’il avait cru lire sur ma figure.

Moi, cependant, j’avais eu le temps de réfléchir qu’en achetant ce chien je me ferais sans doute un ami fidèle et discret, qui, pour m’aider et m’apprécier, ne me demanderait jamais qui j’étais véritablement, d’où je venais, et si mes papiers étaient en règle ; mais qu’il me faudrait aussi me mettre à payer une taxe, moi qui n’en payais plus ! Cela me parut comme une première compromission de ma liberté.

– Vingt-cinq francs ? Je te salue ! dis-je au vieux marchand d’allumettes.

J’enfonçai mon grand chapeau sur mes yeux et, sous la pluie fine que le ciel commençait à verser, je m’éloignai en considérant pourtant, pour la première fois, que c’était sans doute bien beau une liberté aussi étendue, mais que cette liberté était aussi un tantinet tyrannique, si elle ne me permettait même pas de m’acheter un petit chien.



 

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