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Capitolo 32

A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare.

E questa sorpresa quale fu?
Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse…
Indovinate un po’ di che cosa si accorse?
Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule.
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio!
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
— Che cos’hai, mio caro casigliano?
— Sono malato, Marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
— Un pochino.
— Senti dunque se per caso avessi la febbre.
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando:
— Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…
— Cioè?
— Tu hai una gran brutta febbre!…
— E che febbre sarebbe?
— È la febbre del somaro.
— Non la capisco questa febbre! — rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.
— Allora te la spiegherò io, — soggiunse la Marmottina. — Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo…
— E che cosa sarò?
— Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
— Oh! povero me! povero me! — gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
— Caro mio, — replicò la Marmottina per consolarlo, — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
— Ma davvero è proprio così? — domandò singhiozzando il burattino.
— Purtroppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
— Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!…
— E chi è questo Lucignolo!…
— Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: «Perché vuoi annoiarti a studiare? perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri».
— E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
— Perché?… Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… e a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n’è tanti! Oh!… ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!
E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?… Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
Poi uscì: e si dette a cercar Lucignolo dappertutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò
— Chi è? — domandò Lucignolo di dentro.
— Sono io! — rispose il burattino.
— Aspetta un poco, e ti aprirò.
Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
« Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?… ».
E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
— Come stai, mio caro Lucignolo?
— Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
— Lo dici proprio sul serio?
— E perché dovrei dirti una bugia?
— Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
— Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
— Me l’ha ordinato il medico, perchè mi sono sbucciato un piede.
— Oh! povero Pinocchio!…
— Oh! povero Lucignolo!…
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
— Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
— Mai!… E tu?
— Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare.
— Ho lo stesso male anch’io.
— Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?
— Tutt’e due. E tu?
— Tutt’e due. Che sia la medesima malattia?
— Ho paura di sì?
— Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
— Volentieri! Con tutto il cuore.
— Mi fai vedere i tuoi orecchi?
— Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
— No: il primo devi essere tu.
— No, carino! Prima tu, e dopo io!
— Ebbene, — disse allora il burattino, — facciamo un patto da buoni amici.
— Sentiamo il patto.
— Leviamoci tutt’e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
— Accetto.
— Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
— Uno! Due! Tre!
Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt’e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando colore, disse all’amico:
— Aiuto, aiuto, Pinocchio!
— Che cos’hai?
— Ohimè. Non mi riesce più di star ritto sulle gambe.
— Non mi riesce più neanche a me, — gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
E mentre dicevano così, si piegarono tutt’e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.
Ma il momento più brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt’e due coro: j-a, j-a, j-a.
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
— Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!

 

Chapitre 32

Ses oreilles ayant poussé, Pinocchio se met à braire comme un vrai petit âne.

Quelle fut cette mauvaise surprise ?

Je vais vous le dire, mes chers petits lecteurs. En se réveillant, Pinocchio se gratta la tête et c’est là qu’il dé­couvrit que...

Vous avez deviné, n’est-ce pas ?

Il découvrit, à son grand étonnement, que ses oreilles avaient poussé au moins de la longueur d’une main.

Vous vous rappelez que la marionnette avait toujours eu des oreilles si petites qu’on ne pouvait même pas les voir à l’œil nu. Imaginez donc la surprise de Pinocchio quand il se rendit compte que celles-ci s’étaient telle­ment allongées pendant la nuit qu’elles ressemblaient maintenant à deux écouvillons. 

Il chercha immédiatement un miroir pour se regarder. N’en trouvant pas, il remplit d’eau une cuvette pour la toilette et, se mirant dedans, vit ce qu’il n’aurait jamais voulu voir. C’est à dire sa propre image agrémentée d’une magnifique paire d’oreilles d’âne.

Je vous laisse imaginer la souffrance, la honte et le désespoir du pauvre Pinocchio !

Il commença par pleurer, gémir et se cogner la tête contre le mur. Mais plus son désespoir grandissait, plus ses oreilles s’allongeaient et se recouvraient de poils. Alertée par ces cris aigus, une jolie petite marmotte qui habitait l’étage au-dessus entra dans la pièce. Voyant la grande agitation de la marionnette, elle lui demanda avec empressement :

-         Que se passe-t-il, cher voisin ?

-         Je suis malade, petite marmotte, très malade. Et malade d’une maladie qui me fait peur ! Tu sais pren­dre le pouls ?

-         Un peu.

-         Alors, dis-moi si j’ai de la fièvre. 

La marmotte prit le pouls de la marionnette avec l’une de ses pattes de devant et lui dit en soupirant : 

-         Hélas, mon pauvre ami, j’ai une mauvaise nouvelle à te donner.

-         C’est à dire ?

-         Tu as une méchante et forte fièvre

-         Mais de quelle sorte de fièvre s’agit-il ?

-         Tu as une fièvre de cheval, ou plutôt d’âne.

-         Je ne comprends rien à ce que tu dis – répliqua la marionnette qui avait trop bien compris.

-         Je vais donc t’expliquer. Dans deux ou trois heures tu ne seras pas plus une marionnette qu’un petit gar­çon.

-         Et que serai-je ?

-         D’ici deux heures ou trois tu deviendras un bourricot, un vrai, comme ceux qui tirent les carrioles ou por­tent choux et salades au marché.

-         Oh ! Pauvre de moi ! Pauvre de moi ! – hurla Pinocchio en saisissant ses oreilles à pleine main, tirant des­sus et essayant de les arracher rageusement comme si ce n’étaient pas les siennes.

-         Mon ami – intervint la marmotte pour le calmer – que cherches-tu donc à faire? Tu n’y peux rien ! C’est le destin ! Il est prouvé scientifiquement que tous les enfants paresseux qui rejettent les livres, l’école et les maîtres, qui passent leurs journées à jouer et à se divertir, deviennent tôt ou tard des petits ânes. 

-         C’est prouvé ? – questionna la marionnette en sanglotant.

-         Hélas, oui ! Et désormais les pleurs sont inutiles. Il fallait y penser plus tôt.

-         Mais ce n’est pas de ma faute, crois-moi, petite marmotte, c’est à cause de La Mèche !

-         La Mèche ? Qui est-ce ?

-         Un copain d’école. Moi, je voulais rentrer à la maison, je voulais être obéissant, je voulais étudier et me distinguer... Mais La Mèche m’a dit : « Pourquoi t’embêter à travailler ? Pourquoi aller en classe ? Viens plutôt avec nous au Pays des Jouets. Là-bas, on n’étudie pas, on s’amuse du matin au soir et on est toujours joyeux.

-         Pourquoi avoir suivi les conseils de ce faux ami, de ce mauvais compagnon ?

-         Pourquoi ? Parce que, petite marmotte, je suis une marionnette sans cervelle... et sans cœur. Si au moins j’avais eu un peu de cœur, je n’aurais pas abandonné ma bonne fée qui m’aimait comme son propre enfant et qui a tant fait pour moi ! A cette heure, je ne serais plus une marionnette mais un vrai petit garçon, comme tous les autres. Oh ! Si jamais je rencontre La Mèche, gare à lui ! Je lui dirai ses quatre vérités.  

Il fut sur le point de sortir mais, arrivé sur le pas de la porte, il se rappela qu’il avait des oreilles d’âne. Il avait honte de se montrer ainsi en public, mais que faire ? Il finit par prendre un bonnet de coton qu’il mit sur sa tête et enfonça jusqu’au nez. 

Ensuite, il partit à la recherche de La Mèche, décidé à le retrouver n’importe où. Il le chercha dans les rues, sur les places, dans les petits théâtres, mais il ne le trouva nulle part. Il eut beau demander à tous ceux qu’il croi­sait, personne ne l’avait vu. 

Alors il se rendit chez lui et frappa à sa porte.

-         Qui est-ce ? – demanda La Mèche qui était là.

-         C’est moi – répondit la marionnette.

-         Attends une minute ! Je vais t’ouvrir.

Une demi-heure plus tard, la porte s’ouvrit. Et Pinocchio n’en revint pas : son ami La Mèche avait, lui aussi, un grand bonnet de coton qui lui descendait jusqu’au nez !

A la vue de cet accoutrement, la marionnette se sentit presque consolée et se dit :

 « N’aurait-il pas attrapé la même maladie que moi ? N’aurait-il pas, lui aussi, la fièvre des ânes ? »

Faisant semblant de n’avoir rien remarqué, il lui demanda en souriant

-         Comment vas-tu, mon cher La Mèche ?

-         Aussi bien qu’une souris dans une meule de gruyère.

-         Tu es sûr ?

-         Pourquoi donc te mentirai-je ?

-         Excuse-moi mais, dans ce cas, pourquoi portes-tu ce bonnet qui te couvre les oreilles ?

-         Ordonnance du médecin parce que je me suis fait mal au genou. Et toi, ma vieille, pourquoi as-tu aussi un bonnet de coton qui te descend jusqu’au nez ?

-         Ordonnance du médecin parce que j’ai une écorchure au pied.

-         Pauvre Pinocchio !

-         Pauvre La Mèche !

Un long silence s’ensuivit durant lequel les deux amis ne firent rien d’autre que de s’observer avec un sourire moqueur. 

Pinocchio fut le premier à reprendre le dialogue :

-         Pardonne ma curiosité, mon cher La Mèche, mais as-tu jamais souffert des oreilles ?

-         Jamais ! Et toi ?

-         Jamais ! Pourtant, depuis ce matin, j’ai une oreille qui me fait mal.

-         Moi, c’est pareil.

-         Ah ! Toi aussi ? Et  quelle oreille te fait mal, La Mèche ?

-         Les deux, Pinocchio. Et toi ?

-         Les deux. Ne s’agirait-il pas de la même maladie ?

-         J’ai bien peur que oui.

-         Veux-tu me faire plaisir, La Mèche ?

-         Volontiers, Pinocchio.

-         Alors, fais-moi voir tes oreilles.

-         Pas de problème. Mais j’aimerais d’abord voir les tiennes, mon cher Pinocchio.

-         Non, non. Toi en premier.

-         Mais non, cher ami ! Après toi !

-         Bon, dans ce cas, je propose un arrangement – dit la marionnette.

-         Voyons l’arrangement.

-         Enlevons nos bonnets en même temps. D’accord ?

-         D’accord.

-         Attention ! Je compte jusqu’à trois. Un ! Deux ! Trois !

A trois, les deux garçons arrachèrent leurs coiffes et les jetèrent en l’air.

La scène qui suivit parait incroyable. Pourtant, elle est vraie. Découvrant qu’ils étaient l’un et l’autre atteints de la même maladie, Pinocchio et La Mèche, au lieu d’être mortifiés et de prendre un air désolé, se mirent à dé­biter mille grosses plaisanteries à propos de leurs longues oreilles et éclatèrent de rire.

Longtemps ils se tordirent de rire mais La Mèche se tut tout à coup, changea de couleur, chancela et implora:

-         Au secours, Pinocchio ! Aide-moi !

-         Qu’est-ce qui t’arrive ?

-         Je ne peux plus tenir sur mes jambes.

-         Mais moi non plus ! – cria Pinocchio titubant à son tour et fondant en larmes. 

Leurs jambes plièrent et ils se retrouvèrent par terre à marcher sur les mains et sur les genoux. Et alors qu’ils faisaient ainsi le tour de la pièce, leurs bras se transformèrent en pattes, leurs visages s’allongèrent pour de­venir museaux et leurs dos se couvrirent d’un pelage gris clair tacheté de noir. 

Pourtant, savez-vous quel moment fut le plus dur pour ces deux malheureux ? Le moment le plus dur, le plus humiliant pour eux, ce fut quand ils sentirent leur pousser une queue. Vaincus par la honte et la douleur, ils ten­tèrent alors, face à la cruauté de leur destin, de se plaindre et de gémir

Ils n’y parvinrent pas. Plaintes et gémissements ne furent que des braiments d’âne. Tous deux ne purent émet­tre que de bruyants « Hi-han ! Hi-han ! Hi-han ! ».

Et c’est juste à ce moment-là que l’on frappa à la porte et qu’une voix ordonna :

-         Ouvrez ! Je suis le petit homme, le charretier qui vous a amenés ici. Ouvrez immédiatement, sinon gare à vous !


 



 

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