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Capitolo 22

La zattera dei naufraghi

Dormivano da due ore quando vennero bruscamente svegliati da urla acute, da spari e da alcune scosse violentissime che facevano sobbalzare l’imbarcazione, rovesciando i barili e le casse.
Sorpresi, non sapendo a che cosa attribuire quelle vociferazioni, che diventavano sempre più potenti, e quei colpi d’arma da fuoco, balzarono in piedi, precipitandosi verso i bordi della navicella.
Alle prime luci dell’alba, scorsero sotto di loro una grande massa oscura, che ancora non si poteva ben distinguere e sulla quale vedevano dimenarsi come ossessi parecchie forme umane.
“Una nave?” chiese O’Donnell.
“Ma no” rispose l’ingegnere. “Non vedo alcun albero.”
“La zattera! “esclamò il mozzo, impallidendo e rabbrividendo.
“Odo la voce di Mac-Canthy e di Niell!”
“Per mille fulmini!” urlò una voce ruvida. “Scendete, o facciamo fuoco!”
“Chi siete?” gridò l’ingegnere, facendo portavoce con le mani.
“Naufraghi!” urlarono dieci o dodici voci.
“E che cosa volete da noi?”
“Eh, per mille code di Belzebù!” tuonò una voce rauca.
“Qui si crepa di fame!”
“State tranquilli” disse l’ingegnere. “Appena farà un po’ chiaro cercheremo di soccorrervi.”
“Ah! Aspettate della luce, signor passeggero dell’aria!” ghignò quella voce. “Le mie budella non sono in grado di aspettare i vostri comodi, e nemmeno quelle dei miei compagni.”
“Gentile come un orso l’amico.” disse O’Donnell.
“È Mac-Canthy il più brutale dell'equipaggio, Mister O’Donnell” disse il mozzo. “Guardatevi da lui.”
“Dunque,” riprese il marinaio “Corpo di un vascello sventrato! Scendete, sì o no?”
“Ehi, quell’uomo!” gridò l’ingegnere “Ci prendete per dei negri, o per i vostri provveditori?”
“Negri o bianchi, noi ce ne infischiamo, e vi dico che giacché vi abbiamo incontrati, ci darete da mangiare. Non siamo cani noi, signor passeggero dell’aria.”
“Ed io vi dico che, se continuate su questo tono, taglio le funi e vi lascio senza una briciola di pane” ribatté Mister Kelly.
Quella minaccia produsse un grande effetto sui naufraghi e una furiosa reazione contro il ruvido marinaio.
“Chiudi il becco, corvo malaugurato!”gridarono alcuni.
“Abbasso Mac-Canthy! Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!”
“Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone.”
“No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso.”
“Ve lo prometto, parola di yankee.”
“Siete un compatriota?... Viva l’America!”
L’alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull'oceano.
La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile.
Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d’alberetto, da cui pendeva una vela stracciata.
Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare.
A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d’orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime.
“Orrore!” esclamò O’Donnell. “Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa...”
“La fame non discute, O’Donnell” disse l’ingegnere. “Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze.”
“Ci lasceranno liberi poi?”
“Taglieremo le funi.'“
“E le nostre àncore?”
“Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle.”
“Temo che quest’incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly.”
L’ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno.
“Caliamo questi viveri” disse. “Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane.”
“Ma non abbiamo funi per calare questa cassa” disse O’Donnell.
“La faremo scorrere lungo una fune di un’ancora. Aiutatemi, amici.”
I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato.
Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti.
L’ingegnere e O’Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell’ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: “Attenti alle teste!”
La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati.
“E l’acqua!... Noi vogliamo dell’acqua!” urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti.
“Ne abbiamo appena per noi” disse l’ingegnere.
“Dateci la vostra acqua, canaglie!” tuonò Mac-Canthy.
“Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!” urlò O’Donnell. “La canaglia sarai tu!”
“A me amici!” gridò il marinaio. “Tiriamoli giù!”
“Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!” urlarono i marinai furiosi.
L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O’Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi.
“Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!” tuonò Mister Kelly con tono minaccioso.
I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l’aerostato di parecchi metri.
“Tagliate, O’Donnell!” gridò l'ingegnere.
L’irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria.
Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco.
Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l’altra non fu udita.
O’Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l’ingegnere lo trattenne. “È inutile” disse. “Lasciateli: la fame e la sete non ragionano.”
“Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy.”
“È lui che voleva mangiarmi'''' disse il mozzo.
“Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter” disse O’Donnell.
Il Washington intanto s’innalzava rapidamente, alleggerito com’era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l’aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: “Scendi, cane di un mozzo!”
Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s’armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell’inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista.
“Che l’oceano v’inghiotta, canaglie!” esclamò O’Donnell che era ancora esasperato. “Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato.”
“Le privazioni li hanno resi feroci, O’Donnell disse l’ingegnere. “Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente.”
“Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo.”
“Questo é vero, O’Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti.”
“Perdita grave e ...” Si era arrestato col viso in aria, fiutando l’atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione.
“Mister Kelly” disse con voce alterata “sentite odore di gas.”
“Sì, sì” disse l'ingegnere.
“Che una valvola si sia aperta o che... ?”
“Una valvola?... È impossibile. O’Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni.”
“Una palla di quelle canaglie, forse?”
Kelly, che non era meno agitato dell’irlandese, salì sull’asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento.
In alto, udì dei leggeri scoppiettii.
“Infami!” esclamò. “E io li ho soccorsi!”
Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O’Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina.
“Ebbene?” chiese l’irlandese con ansietà.
“L’idrogeno fugge” rispose l’ingegnere.
“Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?”
“Sì e forse tutti e due.”
“Sono ferite gravi?”
“Sì, O’Donnell, perché fra poco quei fori s’ingrandiranno, e noi cadremo sull’oceano.”
“Se provassimo a turarli? Non v’è qualche mezzo?”
“Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?”
“Io, Mister Kelly.”
“No, Mister O’Donnell” disse il giovane Walter, “è affar mio.”
“Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?” chiese l’ingegnere .
“Sono un mozzo, Mister Kelly.”
“Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri.”
“Non avrò paura” rispose il ragazzo con voce ferma.
“Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell’oceano” disse O’Donnell.
“Lascia che vada io.”
“Voi siete troppo pesante, O’Donnell” disse l’ingegnere “e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto.”
“Grazie, Mister Kelly” rispose il ragazzo.
L’ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: “Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge.”
Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s’arrampicò coraggiosamente sull’asta sostenente la scialuppa.
“Hai paura?” gli chiesero O’Donnell e l’ingegnere. “Se ti coglie un principio di vertigine, scendi.”
“Il vuoto non mi spaventa” rispose il ragazzo con voce ferma.
S’aggrappò alla rete e s’innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla.
Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l’esterno, ma essendo solidamente legato all’altro non si rovesciò.
“Ci sei?” chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo.
“Sì, Mister Kelly” rispose Walter.
“È un buco o uno strappo?”
“E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull’altro fuso.”
“Puoi turare le ferite?”
“Lo spero, Mister Kelly.”
Il mozzo si mise subito all’opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l’ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l’operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo.
Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l’apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l’ingegnere e O’Donnell preparavano i cilindri contenenti l’idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi.
Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s’abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora.
L’ingegnere che vedeva avvicinarsi l’oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri.
Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l’operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell’altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente.
“Hai finito?” gli chiese l’ingegnere.
“Sì, Mister Kelly.”
“Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso.”
“Resisteranno le cuciture?” cinese O’Donnell.
“Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas” disse l’ingegnere, “ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora.
“E poi?... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana.”'
L’ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

 

 Chapitre 22

Le radeau des naufragés

Ils dormaient depuis deux heures lorsqu'ils ont été brusquement réveillés par des cris aigus, des coups de feu et des secousses très violentes qui ont fait trembler le bateau, renversant les barils et les caisses.
Surpris, ne sachant à quoi attribuer ces vociférations, qui devenaient de plus en plus puissantes, et ces coups de feu, ils se sont levés d'un bond, se précipitant vers les bords du vaisseau.
Aux premières lueurs de l'aube, ils aperçurent au-dessous d'eux une grande masse sombre, qu'on ne pouvait pas encore distinguer nettement, et sur laquelle ils voyaient plusieurs formes humaines s'agiter comme des obsessionnels.
"Un navire ?" a demandé O'Donnell.
"Mais non", répond l'ingénieur. "Je ne vois pas de mât."
"Le radeau ! " s'exclame le matelot, pâlissant et frissonnant.
"J'entends la voix de Mac-Canthy et Niell !"
"Par mille foudres !" a crié une voix rude. "Descendez, ou on tire !"
"Qui êtes-vous ?" a crié l'ingénieur, en jaillissant avec ses mains.
"Naufragés !" crient dix ou douze voix.
"Et que voulez-vous de nous ?"
"Eh, pour mille queues de Belzébuth !" tonna une voix rauque.
"Nous sommes en train de mourir de faim ici !"
"Rassurez-vous", dit l'ingénieur. "Dès qu'il fera un peu jour, nous essaierons de vous venir en aide."
"Ah ! Attendez un peu de lumière, M. le passager aérien !" ricane cette voix. "Mes tripes ne sont pas capables d'attendre vos convenances, ni celles de mes compagnons."
"Gentil comme un ours le second," dit O'Donnell.
"C'est Mac-Canthy qui est le plus brutal de l'équipage, Monsieur O'Donnell," dit le matelot. "Méfiez-vous de lui."
"Alors, reprend le marin, corps d'un navire éventré ! Descendre, oui ou non ?"
"Hé, cet homme !" a crié l'ingénieur, "vous nous prenez pour des nègres, ou pour vos provisionneurs ?"
" Nègres ou blancs, on s'en fout, et je vous dis que depuis que nous vous avons rencontré, vous allez nous nourrir. Nous ne sommes pas des chiens, M. le passager aérien."
"Et je vous le dis, si vous continuez sur ce ton, je vais couper les cordes et vous laisser sans une miette de pain", a rétorqué M. Kelly.
Cette menace a produit un grand effet sur les naufragés et une réaction furieuse contre le rude marin.
"Tais-toi, méchant corbeau !" ont crié certains.
"A bas Mac-Canthy ! M. l'aviateur, ayez de la compassion pour nous qui sommes affamés ! Ne nous abandonnez pas au nom de Dieu !"
"Je promets de vous venir en aide, mais lâchez les cordes, ou vous allez gâcher mon ballon."
"Non, vous ne nous échapperez pas, monsieur ont crié les naufragés, aux accents menaçants".
"Je vous le promets, parole de Yankee."
"Êtes-vous un compatriote ?... Vive l'Amérique !"
L'aube approchait rapidement, rendant les étoiles pâles. Dans quelques minutes, le soleil allait se lever et déverser ses rayons ardents sur l'océan.
Le radeau, car c'était celui-là même que le matelot avait abandonné six jours auparavant, était maintenant visible.
C'était un amas informe de bois, de poutres, d'espars, de morceaux de planches, de planches attachées avec des cordes et des chaînes, et surmonté d'un tronc de mât, d'où pendait une voile en lambeaux.
Onze hommes montèrent sur ce radeau, onze misérables, aux visages bestiaux, aux membres décharnés par de longs jeûnes, à la barbe hirsute et couverts de haillons ; certains brandissaient des haches et deux tenaient des fusils ; ils semblaient menacer le ballon, décidés à le ruiner par une décharge plutôt que de le laisser partir.
A la proue de cet étrange flotteur, les aéronautes aperçoivent, non sans un frisson d'horreur, les restes de deux squelettes humains jetés derrière deux tonneaux fracassés. Il ne fallut pas longtemps pour comprendre que ces malheureux, rongés par la faim, s'étaient nourris de la chair de ces deux victimes.
"Horreur !" s'est exclamé O'Donnell. "C'est une deuxième édition du naufrage de la Méduse..."
"La faim ne se discute pas, O'Donnell," dit l'ingénieur. "Venez maintenant, essayons de les sauver à la limite de nos forces."
"Ils nous laisseront libres alors ?"
"Nous allons couper les cordes."
"Et nos ancres ?"
"Plutôt que d'être traîné sur le radeau, je préfère les sacrifier."
"Je crains que cette réunion ne nous porte malheur, M. Kelly."
L'ingénieur n'a pas répondu. Il examine rapidement son garde-manger, sélectionne plusieurs boîtes de viande en conserve, empile quelques dizaines de kilogrammes de biscuits dans une caisse, ajoute du sucre et des boîtes de thon.
"Abandonnons ces dispositions", a-t-il dit. "Grâce au rationnement, ces hommes peuvent vivre quelques jours et gagner les îles Canaries, qui ne sont pas loin."
"Mais nous n'avons pas de cordes pour descendre cette caisse", a dit O'Donnell.
"On va le faire descendre sur une corde d'ancrage. Aidez-moi, camarades."
Les naufragés, comprenant que les secours arrivaient, avaient cessé leurs cris de menace, mais ils n'abandonnaient pas les deux cônes, qu'ils avaient tenus par le radeau pour empêcher la fuite du ballon.
Le visage en l'air, les yeux fixés, ils n'ont pas perdu de vue un geste des aéronautes.
Le mécanicien et O'Donnell ont attaché la caisse autour de la corde de l'ancre arrière et l'ont lâchée en criant : "Attention à vos têtes !".
La caisse a filé le long de la corde et a plongé au-dessus du cône. Les naufragés se sont précipités dessus, se cognant et se bousculant pour être les premiers à mettre la main sur la nourriture, l'ont tirée à bord et, en quelques coups de hache, l'ont traversée. Soudain, un hurlement de fureur a éclaté parmi ces misérables.
"Et de l'eau ! Nous voulons de l'eau", ont-ils crié en tendant leurs mains ridées vers les aviateurs.
"Nous en avons à peine pour nous", a dit l'ingénieur.
"Donnez-nous votre eau, bande de vauriens !" tonna Mac-Canthy.
"Je vais t'écraser une balle dans le crâne, brigand !" a crié O'Donnell. "Le vaurien, ce sera toi !"
"A moi les amis !" cria le marin. "Laissez-nous les tirer vers le bas !"
"Oui, à terre, à terre, ou donnez-nous votre eau !" crient les marins furieux.
L'ingénieur ramassa la Winchester et l'arma résolument, tandis que O'Donnell brandissait une hache, prêt à couper les cordes.
"Le premier qui touche aux ancres, je le tue comme un chien !" tonna Monsieur Kelly d'un ton menaçant.
Les naufragés, loin de se calmer à cette menace, deviennent plus furieux : ils se précipitent sur les cordes et donnent un tel coup qu'ils font descendre le ballon de plusieurs mètres.
"Coupez, O'Donnell !" a crié l'ingénieur.
En donnant deux coups de hache sur les bords du navire, sur lesquels reposent les deux cordes, l'Irlandais libère l'aérostat, qui s'envole dans les airs.
En voyant les cordes s'échapper et tomber, les naufragés poussent des cris féroces. Les deux hommes armés ont levé leurs armes et ont tiré.
L'une des balles a frôlé le bord arrière du navire et s'est perdue ailleurs ; l'autre n'a pas été entendue.
O'Donnell, furieux, arme sa carabine et vise le radeau, mais le mécanicien le retient. "C'est inutile", a-t-il dit. "Laissez-les : la faim et la soif ne raisonnent pas."
"Ce sont des scélérats, Monsieur Kelly, qui ne connaissent pas la gratitude. J'aurais volontiers botté un ballon dans le corps de ce brutal Mac-Canthy."
"C'est lui qui voulait me manger'''' dit le matelot.
"Mais j'espère que c'est lui qui sera mangé, Walter", a dit O'Donnell.
Pendant ce temps, le Washington s'élevait rapidement, allégé comme il l'était par ces plus de deux cents mètres de cordes et de cônes. Les naufragés poursuivent néanmoins leurs menaces et tirent leurs canons, même si le ballon est désormais hors de portée. Leur rage semblait ne plus avoir de limites après avoir pris conscience de la présence de Walter, et on entendait la voix rauque de Mac-Canthy crier : "Descends, chien de matelot !".
Voyant le Washington se diriger vers le sud, les hommes, qui semblaient avoir perdu la raison, se précipitèrent sur la voile, qui en un instant fut mise au vent, puis ils s'armèrent de planches et d'espars, et se mirent à marcher furieusement : mais ils durent bientôt se convaincre de l'inutilité de leurs efforts. La distance augmente rapidement, seconde après seconde : leurs cris s'affaiblissent, puis on ne les entend plus ; le radeau se rétrécit peu à peu et on le perd finalement de vue.
"Que l'océan vous avale, bande de vauriens !" s'exclame O'Donnell, toujours exaspéré. "Belle façon de nous récompenser pour les provisions que nous leur avons données."
"Les difficultés les ont rendus vicieux", a déclaré l'ingénieur O'Donnell. "Dans leur cas, nous nous serions peut-être conduits de la même manière."
"Que le diable les prenne ! Voici quelques ancres perdues, que nous pourrions regretter."
"C'est vrai, O'Donnell, pour l'instant nous ne pouvons pas nous arrêter. Nous sommes à la merci des vents."
"Une perte sérieuse et..." Il s'est arrêté, le visage en l'air, reniflant l'atmosphère. Soudain, il pâlit et émet un juron sourd.
"Mr Kelly," dit-il d'une voix altérée, "vous sentez le gaz."
"Oui, oui", dit l'ingénieur.
"Qu'une valve s'est ouverte ou que... ? ?"
"Une valve ?... C'est impossible. O'Donnell. Quelqu'un a gâché nos boules."
"Une de ces boules rebelles, peut-être ?"
Kelly, qui n'était pas moins agité que l'Irlandais, monta sur le mât qui soutenait le canot de sauvetage, et écouta avec un profond recueillement.
Au-dessus de lui, il a entendu un léger crépitement.
"Infâme !" s'est-il exclamé. "Et je les ai sauvés !"
Il redescendit avec une rage sourde : si le radeau avait été encore sous le ballon, il n'aurait peut-être plus tenu O'Donnell, qui voulait répondre aux balles des malheureux avec la grosse carabine.
"Alors ?" demande l'Irlandais avec anxiété.
"L'hydrogène s'échappe", a répondu l'ingénieur.
"Ces naufragés ont-ils traversé un ballon ?"
"Oui, et peut-être les deux."
"Les blessures sont-elles graves ?"
"Oui, O'Donnell, car bientôt ces trous vont s'agrandir, et nous tomberons dans l'océan."
"Et si on essayait de les brancher ? N'y a-t-il aucun moyen ?"
"Oui, couds-les, mais qui montera sur les fuseaux ?"
"Moi, M. Kelly."
"Non, Monsieur O'Donnell," dit le jeune Walter, "c'est mon affaire."
"Tu n'as pas le vertige, mon garçon ?" demande l'ingénieur.
"Je suis un matelot, Monsieur Kelly."
"Mais nous sommes à une hauteur effrayante, Walter : 3300 mètres."
"Je n'aurai pas peur", répondit le garçon d'une voix ferme.
"Mais une main ou un pied peut glisser et vous pourriez plonger dans l'océan", a déclaré O'Donnell.
"Laissez-moi partir."
"Vous êtes trop lourd, O'Donnell," dit l'ingénieur, "et vous pouvez déséquilibrer la broche. Je préfère que Walter, qui ne pèse pas lourd, monte."
"Merci, M. Kelly", répondit le garçon.
L'ingénieur fouilla dans une des caisses et en sortit du fil de soie, quelques aiguilles et une petite boîte contenant une peinture très épaisse et très collante qui dégageait une forte odeur de résine. Il a tendu ces différents objets au matelot en lui disant : " Ne perds pas de temps, mon brave ". Chaque minute qui passe, c'est un mètre cube de gaz qui s'échappe."
Walter empoche les objets, enlève ses chaussures pour ne pas abîmer la soie des ballons et pour être plus sûr de ses pieds, puis s'accroche aux cordes et grimpe courageusement sur le mât qui soutient le canot de sauvetage.
"Vous avez peur ?" ont demandé O'Donnell et l'ingénieur. "Si vous avez un début de vertige, descendez."
"Le vide ne m'effraie pas", répondit le garçon d'une voix ferme.
Il s'est accroché au filet et s'est élevé au-dessus de l'effrayant gouffre ouvert sous ses pieds. De maille en maille, il atteint le bord inférieur du fuseau tribord et se hisse sur son flanc, à la recherche des trous ouverts par la boule.
Le fuseau, sous ce poids accroché à son côté, a bougé, s'est incliné vers l'extérieur, mais étant solidement attaché à l'autre, il ne s'est pas renversé.
"Vous êtes là ?" demande l'ingénieur, qui n'aperçoit plus le moyeu.
"Oui, Monsieur Kelly", a répondu Walter.
"C'est un trou ou une déchirure ?"
"Et une larme de six centimètres de long ; et j'en vois une plus longue sur l'autre fuseau."
"Pouvez-vous réparer les blessures ?"
"Je l'espère, M. Kelly."
Le matelot s'est immédiatement mis au travail. Les boules, au lieu d'avoir traversé les broches en ouvrant deux trous, comme l'ingénieur l'avait d'abord soupçonné, les avaient effleurées latéralement, produisant cependant deux déchirures considérables, par lesquelles le gaz s'échappait avec une grande impétuosité, en éclatant. Ils ont pu être bouchés mais, avant que l'opération ne soit terminée, une quantité considérable d'hydrogène a dû s'échapper, compromettant fortement la stabilité du Washington qui a commencé à couler rapidement, s'inclinant sur le côté tribord.
Walter, nouant un mouchoir sur sa bouche et son nez pour ne pas être asphyxié par le gaz qui éclate par l'ouverture, se met rapidement au travail, tandis que l'ingénieur et O'Donnell préparent les cylindres contenant l'hydrogène comprimé pour l'injecter dans les tuyaux de la broche.
Malgré la couture rapide du moyeu, le Washington se plie de plus en plus et s'abaisse rapidement, voire s'effondre. En cinq minutes, il avait chuté de 1 500 mètres et ne s'arrêtait toujours pas.
L'ingénieur, qui voit l'océan s'approcher à grande vitesse, ouvre le premier cylindre et lance les quarante premiers litres d'hydrogène dans la broche réparée. Le Washington s'est redressé et sa descente s'est arrêtée, il a commencé à monter, d'abord lentement, puis avec une certaine vitesse, jusqu'à atteindre 3200 mètres.
Le moyeu avait fini la couture. Il l'a recouverte de plusieurs coups de peinture, s'est assuré qu'il n'y avait pas d'autres ouvertures, puis est redescendu, a passé plus de broche et a répété l'opération sur la deuxième blessure, plus grave que l'autre. On aurait dit qu'elle avait été faite par une balle tranchante.
"Vous avez terminé ?" lui a demandé l'ingénieur.
"Oui, Monsieur Kelly."
"Merci, mon bon monsieur. Renforçons aussi le second fuseau."
"Les coutures tiendront-elles ?" Chinois O'Donnell.
"Je ne prétends pas qu'ils ne laisseront pas échapper le gaz, dit l'ingénieur, mais finalement la fuite sera moindre et, peut-être, pourrons-nous nous soutenir dans l'air quelques jours de plus.
"Et ensuite ?... le vent nous pousse toujours vers le sud, M. Kelly, et la côte est loin."''
L'ingénieur ne répondit pas, mais poussa un profond soupir.



 

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