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Capitolo 26

Le isole Bissagos

L’arcipelago delle Bissagos forma un gruppo considerevole di isole, situato non di fronte al Gambia, come si vede generalmente nelle carte geografiche, ma tra la foce del Rio Grande e la costa della Sierra Leone e più precisamente fra il Capo Rosso e la Punta Verga.
Quantunque queste terre si trovino così vicino ai possedimenti francesi della Senegambia, sono pochissimo note, e ben pochi esploratori si sono avventurati su quelle coste che godono di pessima fama. Si sa che sono assai boscose e che sono abitate da una popolazione bellicosa e crudele, dai Bigiuga, guerrieri valentissimi, i quali si sono impadroniti delle isole fluviali, cacciando e sterminando i pacifici Biafri che prima le occupavano.
Come si vede, gli aeronauti del Washington stavano per cadere su di un isola assai pericolosa: però al momento né l’ingegnere né O’Donnell s’inquietavano. A loro bastava toccare terra prima di venire respinti nell’Atlantico dove avrebbero trovato la morte.
Come si disse, nel momento in cui il sole scomparve, il Washington cominciò a precipitare con grande velocità, come se tutto d’un colpo si fosse riempito di ferro. Fortunatamente, invece di cadere su di un terreno scoperto, piombava in mezzo a una fitta foresta, che alzava in aria dei rami giganteschi.
“Non abbiate paura, O’Donnell,” disse l’ingegnere. “I rami ci serviranno da paracadute.”
“Sono abituato ai capitomboli. Mister Kelly.” rispose l’irlandese.
“Vi raccomando di non lasciare la rete prima che io dia il segnale, o uno di noi sarà trascinato ancora in aria.”
L’aerostato cadeva sempre. La distanza scemava con rapidità spaventevole: pareva agli aeronauti che la foresta volasse loro incontro.
“Attenzione ai rami O’Donnell!” gridò l’ingegnere. “Badate di non farvi infilzare.”
Un istante dopo il Washington precipitava sulla cima del bosco. Trovando un punto d’appoggio, tentò di rialzarsi un'ultima volta, ma le maglie della rete s’impigliarono fra i rami, e fu trattenuto violentemente. Il vento però lo sbattè e lo trascinò per alcuni passi, sventrandolo contro le punte degli alberi.
Il gas sfuggì con lunghi crepitii attraverso le fenditure, la seta si sgonfiò rapidamente, e i due fusi si ripiegarono sui rami, pendendo fino a terra come due immensi stracci.
“Povero Washington” esclamò O’Donnell, con accento di dolore.
“È finita” rispose l’ingegnere con un sospiro.
“Scendiamo, Mister Kelly?”
“Siete ferito?”
“No, signore.”
“A terra, dunque.”
Si erano aggrappati ai rami di un albero di dimensioni colossali, un vecchio baobab. Scivolarono lungo i rami che s’incurvavano verso terra e si lasciarono cadere in mezzo ad alcuni fitti cespugli. Stavano per rialzarsi, quando si videro piombare addosso trenta o quaranta uomini di alta statura, color della liquirizia, coperti da pochi cenci e armati di lance e di fucili lunghissimi e di antico stampo. L’aggressione fu così rapida e inaspettata, che O’Donnell e l’ingegnere si trovarono ridotti all’impotenza prima di poter far uso delle loro armi.
“Che vuol dire?” chiese O’Donnell, furioso. “E così che si trattano le persone che cadono dal cielo, in queste isole? Giù le zampe, furfanti!”
I negri invece di obbedire strinsero più robustamente i due aeronauti, emettendo grida formidabili e sgambettando come scimmie che si divertano. Ridevano, si battevano il ventre, che risuonava come un tamburo, e parlavano senza arrestarsi, ripetendo sovente la parola: tubaba!
“Tubaba!” esclamò O’Donnell. “Che vuol dire? Voi capite qualche cosa, Mister Kelly?”
“No, O’Donnell, ma forse qualcuno conoscerà il francese, questi negri, di quando in quando, hanno dei contatti coi trafficanti della Senegambia.”
“Provate a interrogarli. Sarei curioso di sapere che intendono fare di noi.”
“Che cosa desiderate da noi?” chiese l’ingegnere, in francese.
Udendo quella domanda un grande negro, che portava al collo una scatola vuota di sardine di Nantes e sul capo un berretto sformato e stracciato che pareva essere appartenuto a qualche ufficiale di marina, rispose nella stessa lingua: “Vogliamo condurvi da Umpane.”
“Chi è questo Umpane?”
“Il re dell'isola.”
“Come si chiama quest'isola?'
“Orango.”
“Ci avete teso un agguato?”
“Vi abbiamo veduti cadere e siamo corsi qui per mangiare l’uccello che vi portava.”
L’ingegnere scoppiò in una risata.
“Va a mangiarlo il nostro uccello” disse.
“È fuggito? Non vedo che la sua pelle.”
“Sì, è fuggito dopo essersi sbarazzato della sua prima pelle” disse l’ingegnere sempre ridendo. “Dove andiamo ora?”
“Alla tabanca di Umpane.”
“Conduceteci da lui, dunque.”
Ad un comando del negro che pareva fosse il capo, il drappello si mise in marcia, circondando i due aeronauti, ai quali avevano preso le armi, e portando con sé le spoglie del pallone dopo averle fatte in lunghi pezzi. Aprendosi il passo fra i fitti cespugli che ingombravano il bosco, e girando e rigirando fra i tronchi giganteschi dei baobab, delle palme d’elais e dei manghi che crescevano sulle rive delle paludi, dopo mezz’ora giunsero dinanzi a un villaggio situato a breve distanza dalle sponde dell’oceano e composto di un centinaio di capanne più o meno vaste e di lunghi fabbricati che parevano magazzini. Udendo le grida del drappello, una folla di negri si precipitò fuori dalle capanne, recando dei rami accesi e circondando i prigionieri senza però, per il momento, manifestare intenzioni ostili. Le grida divennero così acute, che l’ingegnere e O’Donnell furono costretti a turarsi gli orecchi.
“Che concerto!” esclamò l’irlandese, più seccato che spaventato.
“Una banda di scimmie urlanti non farebbe di più.”
“Dov’è il re?” chiese l’ingegnere al negro dal berretto.
“Laggiù” rispose questi additando una grande capanna circolare, difesa da una palizzata di bambù e appoggiata a un boschetto di aranci.
“Conducimi da lui.”
Il negro e la sua scorta respinsero la folla con una grandine di legnate e condussero gli aeronauti verso la grande capanna. Il re, senza dubbio informato del loro arrivo, li aspettava sulla porta.
Era un brutto negro di trentacinque o trentott’anni, coi lineamenti feroci, gli occhi obliqui che tradivano la doppiezza dell’anima, il naso ricurvo come il becco d’un pappagallo e la carnagione d’un nero lucido perfetto. Portava ai fianchi un sottanino ornato di perle di vetro, di denti di animali selvaggi e di code di scimmie, alle gambe un paio di lunghi stivali sfondati, sul capo un vecchio cappello a cilindro, ammaccato e senza tesa, adorno di etichette, di scatole di sardine, e in mano un bastone da capomusica. In attesa degli stranieri, stava rosicchiando con visibile soddisfazione un pezzo di sapone profumato. Vedendo i due aeronauti, mosse loro incontro seguito da parecchi dignitari e da alcuni guerrieri armati di vecchi fucili, e li guardò per alcuni istanti con curiosità, poi interrogò il capo della truppa, il grande negro dal berretto. Vedendo che la conversazione si prolungava assai e non comprendendo che cosa dicessero, l’ingegnere si fece innanzi e domandò: “In conclusione, che desidera Sua Maestà negra?”
“Nulla per ora” rispose il negro dal berretto. “Domani il grande sacerdote deciderà della vostra sorte.”
“Che intendi dire? È la libertà incondizionata che noi reclamiamo, essendo uomini liberi; al tuo re nulla dobbiamo: ci lasci dunque andare per i fatti nostri.”
“Deciderà il grande sacerdote.”
“Me ne infischio del vostro sacerdote.”
“Bada, bianco, che tu sei straniero qui e che i Bigiuga sono potenti.”
In quell’istante dalla parte dell’oceano risuonò una detonazione, che pareva prodotta da un cannoncino. L’ingegnere e O’Donnell si volsero da quella parte, mentre i negri alzavano urla acute, e al pallido chiarore della luna, che allora si alzava all’orizzonte, videro approdare il cutter che s’era volto in soccorso del Washington mentre questo stava per precipitare nelle onde.
“Siamo salvi” gridò O’Donnell.
Una voce argentina, ma squillante, partì dalla piccola nave: “Mister Kelly!... Mister O’Donnell...”
“Walter!” esclamarono gli aeronauti. Un uomo bianco armato di fucile e di rivoltelle, era sbarcato e muoveva rapidamente verso i negri, seguito dal mozzo e da otto negri armati di fucili a retrocarica.
“Indietro!” gridò in lingua portoghese. “Dov’è Umpane?”
I Bigiuga, che pareva lo conoscessero, fecero largo e l’uomo bianco avanzò verso gli aeronauti stupiti stendendo la mano e dicendo: “Sono felice di liberarvi da queste canaglie, Mister Kelly e Mister O’Donnell. Ora accomoderò ogni cosa.”
“Grazie, signore” risposero i due aeronauti, vivamente commossi e stringendogli la mano.
“So chi siete.” riprese lo sconosciuto “e donde venite, e lo sapevo prima che raccogliessi il vostro mozzo. L’ardita vostra impresa era conosciuta anche sulle coste africane.”
Poi mentre l’ingegnere e l’irlandese abbracciavano il mozzo lo sconosciuto si volse verso Umpane, dicendogli con voce brusca: “È così che tratti i miei amici? Bisognerà che mi decida a non approdare più alla tua isola e che vada a vendere altrove il mio arak e la mia polvere da sparo.”
“Ma questi nomini sono caduti dal cielo” disse il re, pure in portoghese, “Forse che ti apparteneva quel grande uccello?”
“Sì era mio” rispose il bianco con grande serietà.
“Allora ne manderai uno al tuo amico Umpane?”
“Nel mio prossimo viaggio te ne porterò uno.”
“E non fuggirà lasciandomi la pelle?”
“T’insegnerò il modo di impedirgli di fuggire. Ma tu devi consegnarmi questi due bianchi che sono miei amici.”
“Lo permetteranno le divinità dell’isola?”
“Interrogale.”
Ad un cenno del re si fece innanzi un vecchio negro, che si era affrettato a coprirsi con un pezzo di seta del Washington ornandolo di code di scimmie, di denti umani, di scaglie di testuggine e di perle di vetro. Alla cintola portava un coltellaccio, che pareva essere stato affilato di recente.
“Che cosa sta per succedere, signore?” chiese l’ingegnere al portoghese.
“Si sta per decapitare un disgraziato gallo, Mister Kelly” gli rispose.
“E che cosa ha a che fare un gallo con noi?”
“Questi superstiziosi negri pretendono che le divinità dell’isola risiedano nel corpo d’un gallo, e manifestino le loro intenzioni coi contorcimenti dell’innocente vittima. Se il gallo, nel dibattersi, cadrà dalla vostra parte, gli dei vi permetteranno di andarvene: se si allontana, allora sarà una faccenda seria. Fortunatamente conosco quel volpone di sacerdote e con un regalo farò in modo che le cose vadano bene.”
“Lo credete?”
“L’ho già fatto avvertire che riceverà una delle mie rivoltelle.”
In quell’istante fu recata la vittima. Era un grosso gallo tutto nero, che faceva sforzi disperati per liberarsi dalle mani di due alti dignitari che lo tiravano per le zampe e per la testa. Il grande sacerdote scambiò un rapido sguardo col portoghese, poi con un colpo di coltello decapitò la vittima, la quale andò proprio a cadere ai piedi dell’ingegnere e di O’Donnell.
“Le divinità li proteggono, Umpane” disse il sacerdote con accento solenne.
“Andate,” disse il re con un certo malumore. “Siete liberi. Ma trattengo le vostre armi e la pelle del grande uccello.”
“Te le lasciamo di cuore” disse il portoghese.
Poi mentre uno dei suoi uomini donava al grande sacerdote la rivoltella, disse: “Affrettiamoci signori. Quella canaglia di Umpane potrebbe pentirsi.”
I negri ad un cenno del re aprirono le file. e i due aeronauti, il portoghese, il mozzo e l’equipaggio si diressero rapidamente verso il Cutter e s’imbarcarono.
“Ti raccomando il grande uccello!” gridò Umpane.
“Tè lo manderò” rispose il portoghese ridendo. “Vedrai come sarà magnifico!...”
Le àncore vennero strappate dal fondo, la randa e la controranda vennero orientate, e il piccolo legno s’allontanò rapidamente dal pericoloso arcipelago, portando seco gli eroi di quel meraviglioso viaggio compiuto attraverso l’Oceano Atlantico.

 

 Chapitre 26

Les îles Bissagos

L'archipel des Bissagos forme un groupe d'îles assez important, situé non pas en face de la Gambie, comme on le voit généralement sur les cartes, mais entre l'embouchure du Rio Grande et la côte de la Sierra Leone, et plus précisément entre le Cap Rouge et Punta Verga.
Bien que ces terres soient si proches des possessions françaises de la Sénégambie, elles sont très peu connues, et très peu d'explorateurs se sont aventurés sur ces côtes, qui jouissent d'une très mauvaise réputation. On sait qu'elles sont fortement boisées et habitées par une population belliqueuse et cruelle, les Bigiuga, vaillants guerriers, qui ont pris possession des îles du fleuve, chassant et exterminant les paisibles Biafri qui les occupaient auparavant.
Comme vous pouvez le constater, les aviateurs du Washington étaient sur le point de s'écraser sur une île très dangereuse, mais à ce moment-là, ni l'ingénieur ni O'Donnell ne s'inquiétaient. Il leur suffit de toucher terre avant d'être repoussés dans l'Atlantique où ils trouveront la mort.
Comme ils l'ont dit, au moment où le soleil a disparu, le Washington a commencé à plonger à grande vitesse, comme si d'un seul coup il avait été rempli de fer. Heureusement, au lieu de tomber sur un terrain dégagé, il a plongé au milieu d'une forêt dense, qui a soulevé des branches gigantesques dans les airs.
"N'ayez crainte, O'Donnell," dit l'ingénieur. "Les branches nous serviront de parachutes."
"J'ai l'habitude des culbutes. Monsieur Kelly." répondit l'Irlandais.
"Je vous conseille de ne pas quitter le filet avant que je ne donne le signal, ou l'un de nous sera à nouveau traîné dans les airs."
L'aérostat est toujours tombé. La distance diminue avec une rapidité effrayante : il semble aux aéronautes que la forêt vole vers eux.
"Attention aux branches O'Donnell !" a crié l'ingénieur. "Faites attention à ne pas vous faire embrocher."
Un instant plus tard, le Washington a dégringolé au sommet de la forêt. Trouvant un point d'appui, il tenta de se relever une dernière fois, mais les mailles du filet s'accrochèrent entre les branches, et il fut violemment retenu. Le vent, cependant, le fouette et l'entraîne à quelques pas, le délogeant contre la pointe des arbres.
Le gaz s'échappa avec de longs crépitements par les crevasses, la soie se dégonfla rapidement, et les deux fuseaux se replièrent sur les branches, pendant jusqu'au sol comme deux immenses chiffons.
"Pauvre Washington", s'exclame O'Donnell, avec un accent de douleur.
"C'est fini", a répondu l'ingénieur avec un soupir.
"On descend, Monsieur Kelly ?"
"Êtes-vous blessé ?"
"Non, monsieur."
"En bas, alors."
Ils se sont accrochés aux branches d'un arbre de taille colossale, un vieux baobab. Ils glissent le long des branches qui s'incurvent vers le sol et se laissent tomber dans des buissons épais. Ils étaient sur le point de se lever lorsque trente ou quarante hommes de grande taille, de couleur réglisse, couverts de quelques haillons et armés de lances et de très longs fusils démodés, se jetèrent sur eux. L'attaque était si rapide et inattendue que O'Donnell et le mécanicien se sont retrouvés réduits à l'impuissance avant d'avoir pu faire usage de leurs armes.
"Que voulez-vous dire ?" demande O'Donnell, furieux. "C'est comme ça que vous traitez les gens qui tombent du ciel, sur ces îles ? Enlevez vos pattes, canailles !"
Les nègres, au lieu d'obéir, s'agrippent plus fortement aux deux aéronautes, poussent des cris terribles et s'agitent comme des singes qui s'amusent. Ils riaient, battaient leur ventre, qui résonnait comme un tambour, et parlaient sans s'arrêter, répétant souvent le mot : tubaba !
"Tubaba !" s'est exclamé O'Donnell. "Qu'est-ce que ça veut dire ? Vous comprenez quelque chose, M. Kelly ?"
"Non, O'Donnell, mais peut-être que quelqu'un connaîtra le français, ces nègres, de temps en temps, ont des contacts avec des trafiquants de Sénégambie".
"Essayez de les interroger. Je serais curieux de savoir ce qu'ils ont l'intention de faire de nous."
"Que voulez-vous de nous ?" demande l'ingénieur, en français.
En entendant cette question, un grand nègre, qui portait au cou une boîte vide de sardines de Nantes et sur la tête un bonnet informe et en lambeaux qui semblait avoir appartenu à quelque officier de marine, répondit dans la même langue : " Nous voulons vous conduire à Umpane. "
"Qui est cet Umpane ?"
"Le roi de l'île."
"Quel est le nom de cette île ?
"Orango."
"Vous nous avez tendu une embuscade ?"
"On t'a vu tomber et on a couru ici pour manger l'oiseau qui t'a amené."
L'ingénieur a éclaté de rire.
"Allez manger notre oiseau", a-t-il dit.
"S'est-il échappé ? Je ne vois que sa peau."
"Oui, il s'est échappé après s'être débarrassé de sa première peau", dit l'ingénieur, toujours en riant. "Où allons-nous maintenant ?"
"A la tabanca d'Umpane."
"Conduisez-nous à lui, alors."
Sur un ordre du nègre qui paraissait être le chef, la troupe se mit en route, entourant les deux aéronautes, dont ils avaient pris les armes, et emportant avec eux les restes du ballon après les avoir brisés en longs morceaux. Après une demi-heure, ils arrivèrent à un village, à une courte distance du bord de l'océan, composé d'une centaine de huttes de taille variable et de longs bâtiments qui ressemblaient à des entrepôts. Entendant les cris de la troupe, une foule de Noirs se précipite hors des huttes, portant des branches enflammées et entourant les prisonniers sans manifester, pour le moment, d'intentions hostiles. Les cris sont devenus si forts que l'ingénieur et O'Donnell ont dû tendre l'oreille.
"Quel concert !" s'exclame l'Irlandais, plus agacé qu'effrayé.
"Une bande de singes hurleurs ne ferait pas mieux."
"Où est le roi ?" demande l'ingénieur au nègre à casquette.
"Là-bas", répondit ce dernier en désignant une grande cabane circulaire, défendue par une palissade de bambou et adossée à un bosquet d'orangers.
"Conduisez-moi à lui."
Le nègre et son escorte repoussent la foule sous une grêle de coups et conduisent les aéronautes vers la grande cabane. Le roi, sans doute informé de leur arrivée, les attendait à la porte.
C'était un vilain Noir de trente-cinq ou trente-huit ans, aux traits farouches, aux yeux bridés qui trahissaient la duplicité de son âme, au nez recourbé comme un bec de perroquet, au teint d'un noir brillant parfait. Sur ses hanches, il portait un jupon orné de perles de verre, de dents d'animaux sauvages et de queues de singes, sur ses jambes une paire de longues bottes défoncées, sur sa tête un vieux chapeau haut de forme, cabossé et sans bord, orné d'étiquettes et de boîtes de sardines, et dans sa main un bâton de chef de musique. En attendant les étrangers, il grignotait avec une satisfaction visible un morceau de savon parfumé. Apercevant les deux aéronautes, il s'avança vers eux, suivi de plusieurs dignitaires et de quelques guerriers armés de vieux fusils, et les regarda quelques instants avec curiosité, puis interrogea le chef de la troupe, le grand nègre à casquette. Voyant que la conversation durait longtemps et ne comprenant pas ce qu'ils disaient, l'ingénieur s'est avancé et a demandé : "En conclusion, que veut Votre Majesté le Nègre ?"
"Rien pour le moment", répondit le nègre à casquette. "Demain, le grand prêtre décidera de votre sort."
"Qu'est-ce que tu veux dire ? C'est la liberté inconditionnelle que nous revendiquons, étant des hommes libres ; à votre roi nous ne devons rien : laissez-nous donc suivre notre propre chemin. "
"Le grand prêtre décidera."
"J'en ai rien à faire de votre prêtre."
"Prends garde, homme blanc, que tu es un étranger ici, et que les Bigiuga sont puissants."
À cet instant, une détonation retentit du côté de l'océan, qui semble être produite par un petit canon. Le mécanicien et O'Donnell se tournèrent dans cette direction, tandis que les nègres poussaient des cris aigus, et dans le pâle clair de lune qui se levait alors à l'horizon, ils virent le cotre de terre, qui s'était porté au secours du Washington au moment où il allait plonger dans les flots.
"Nous sommes sauvés", a crié O'Donnell.
Une voix argentée mais sonnante est venue du petit navire : "Mr Kelly ! Monsieur O'Donnell..."
"Walter !" s'exclament les aéronautes. Un homme blanc armé d'un fusil et de revolvers avait débarqué et se dirigeait rapidement vers les nègres, suivi par le matelot et huit nègres armés de fusils à chargement par la culasse.
"Reculez !", a-t-il crié en portugais. "Où est Umpane ?"
Les Bigiugas, qui semblaient le connaître, s'écartèrent, et l'homme blanc s'avança vers les aéronautes étonnés, leur tendant la main et leur disant : "Je suis heureux de vous débarrasser de ces scélérats, Mister Kelly et Mister O'Donnell. Je vais maintenant tout accommoder."
"Merci, monsieur", répondent les deux aéronautes, vivement émus et se serrant la main.
"Je sais qui vous êtes, reprit l'étranger, et d'où vous venez, et je le savais avant de prendre votre matelot. Votre exploit audacieux était connu même sur les côtes d'Afrique."
Puis, alors que l'ingénieur et l'Irlandais embrassaient le matelot, l'étranger se tourna vers Umpane, disant d'une voix brusque : " Est-ce ainsi que vous traitez mes amis ? ". Je vais devoir me résoudre à ne plus débarquer sur votre île, et aller vendre mon arak et ma poudre à canon ailleurs. "
"Mais ces noms sont tombés du ciel", dit le roi, également en portugais, "Peut-être que ce grand oiseau vous appartenait ?".
"Oui, c'était le mien", a répondu l'homme blanc avec beaucoup de sérieux.
"Alors tu en enverras un à ton ami Umpane ?"
"Lors de mon prochain voyage, je vous en apporterai un."
"Et il ne va pas s'échapper et quitter ma peau ?"
"Je vais t'apprendre le moyen de l'empêcher de s'échapper. Mais vous devez me livrer ces deux Blancs qui sont mes amis."
"Les divinités de l'île permettront-elles cela ?"
"Interrogez-les."
Sur un signe de tête du roi, un vieux nègre s'avança, qui s'était empressé de se couvrir d'un morceau de soie de Washington, l'ornant de queues de singe, de dents humaines, d'écailles de tortue et de perles de verre. Il portait à sa ceinture un petit couteau, qui semblait avoir été récemment aiguisé.
"Qu'est-ce qui va se passer, monsieur ?" a demandé l'ingénieur au Portugais.
"Un misérable coq est sur le point d'être décapité, Monsieur Kelly," répondit-il.
"Et qu'est-ce qu'un coq a à voir avec nous ?"
" Ces nègres superstitieux prétendent que les divinités de l'île résident dans le corps d'un coq, et manifestent leurs intentions par les contorsions de l'innocente victime. Si le coq, en gigotant, tombe de votre côté, les dieux vous permettront de partir : s'il s'éloigne, alors ce sera grave. Heureusement, je connais ce prêtre roublard, et avec un cadeau, je ferai en sorte que les choses se passent bien."
"Tu crois ?"
"Je l'ai déjà prévenu qu'il recevra un de mes revolvers."
A cet instant, la victime a été amenée. C'était un grand coq tout noir, qui se débattait désespérément pour se libérer des mains de deux hauts dignitaires qui le tiraient par les pattes et la tête. Le grand prêtre échange un regard rapide avec le Portugais, puis d'un coup de couteau il décapite la victime, qui tombe aux pieds de l'ingénieur et d'O'Donnell.
"Les divinités les protègent, Umpane", dit le prêtre avec un accent solennel.
"Va", dit le roi avec un certain mécontentement. "Vous êtes libre. Mais je garde vos armes et la peau du grand oiseau."
"Nous vous les laissons de bon cœur", dit le Portugais.
Puis, tandis qu'un de ses hommes donnait le revolver au grand prêtre, il dit : " Dépêchons-nous, messieurs. Ce voyou d'Umpane peut se repentir."
Les nègres, sur un signe de tête du roi, ouvrirent leurs rangs. Les deux aéronautes, le Portugais, le matelot et l'équipage se dirigèrent rapidement vers le Cutter et s'embarquèrent.
"Je recommande le grand oiseau !" s'écria Umpane.
"Je vous l'enverrai", répondit le Portugais en riant. "Vous verrez comme il sera magnifique ..."
Les ancres sont retirées du fond, la grande voile et le mât d'artimon sont ajustés, et le petit navire s'éloigne rapidement du dangereux archipel, emportant avec lui les héros de cette merveilleuse traversée de l'océan Atlantique.



 

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