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IV: Fu così
Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo. - Ti conosco, - gli dicevo, - ti conosco... Poi, a un tratto, esclamai: - To'! Batta Malagna. Presi un tridente, ch'era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitré. Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall'attaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l'imminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra. Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri m'immagino, debbono avere una certa impostatura, ch'egli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com'egli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, pover'uomo. Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare. Aveva commesso l'errore di scegliersi la moglie d'un paraggio superiore al suo, ch'era molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di condizione pari alla sua, non sarebbe stata forse così fastidiosa com'era con lui, a cui naturalmente doveva dimostrare, a ogni minima occasione, ch'ella nasceva bene e che a casa sua si faceva così e così. Ed ecco il Malagna, obbediente, far così e così, come diceva lei - per parere un signore anche lui. - Ma gli costava tanto! Sudava sempre, sudava. Per giunta, la signora Guendalina poco dopo il matrimonio, si ammalò d'un male di cui non poté più guarire, giacché, per guarirne, avrebbe dovuto fare un sacrifizio superiore alle sue forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini coi tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre golerie, e anche, anzi soprattutto, del vino. Non che ne bevesse molto; sfido! nasceva bene: ma non avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco. Io e Berto, giovinetti, eravamo qualche volta invitati a pranzo dal Malagna. Era uno spasso sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla moglie su la continenza, mentre lui mangiava, divorava con tanta voluttà i cibi più succulenti: - Non ammetto, - diceva, - che per il momentaneo piacere che prova la gola al passaggio d'un boccone, per esempio, come questo - (e giù il boccone) - si debba poi star male un'intera giornata. Che sugo c'è? Io son certo che me ne sentirei, dopo, profondamente avvilito. Rosina! - (chiamava la serva) - Dammene ancora un po'. Buona, questa salsa majonese! - Majonese! - scattava allora la moglie inviperita. - Basta così! Guarda, il Signore dovrebbe farti provare che cosa vuol dire star male di stomaco. Impareresti ad aver considerazione per tua moglie. - Come, Guendalina! Non ne ho? - esclamava Malagna, mentre si versava un po' di vino. La moglie, per tutta risposta, si levava da sedere, gli toglieva dalle mani il bicchiere e andava a buttare il vino dalla finestra. - E perché? - gemeva quello, restando. E la moglie: - Perché per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo, e va' a buttarlo dalla finestra, come ho fatto io, capisci? Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po' Berto, un po' me, un po' la finestra, un po' il bicchiere; poi diceva: - Oh Dio, e che sei forse una bambina? Io, con la violenza? Ma no, cara: tu, da te, con la ragione dovresti importelo il freno... - E come? - gridava la moglie. - Con la tentazione sotto gli occhi? vedendo te che ne bevi tanto e te l'assapori e te lo guardi controlume, per farmi dispetto? Va' là, ti dico! Se fossi un altro marito, per non farmi soffrire... Ebbene, Malagna arrivò fino a questo: non bevve più vino, per dare esempio di continenza alla moglie, e per non farla soffrire. Poi - rubava... Eh sfido! Qualche cosa bisognava pur che facesse. Se non che, poco dopo, venne a sapere che la signora Guendalina se lo beveva di nascosto, lei, il vino. Come se, per non farle male, potesse bastare che il marito non se ne accorgesse. E allora anche lui, Malagna, riprese a bere, ma fuor di casa, per non mortificare la moglie. Seguitò tuttavia a rubare, è vero. Ma io so ch'egli desiderava con tutto il cuore dalla moglie un certo compenso alle afflizioni senza fine che gli procurava; desiderava cioè che ella un bel giorno si fosse risoluta a mettergli al mondo un figliuolo. Ecco! Il furto allora avrebbe avuto uno scopo, una scusa. Che non si fa per il bene dei figliuoli? La moglie però deperiva di giorno in giorno, e Malagna non osava neppure di esprimerle questo suo ardentissimo desiderio. Forse ella era anche sterile, di natura. Bisognava aver tanti riguardi per quel suo male. Che se poi fosse morta di parto, Dio liberi?... E poi c'era anche il rischio che non portasse a compimento il figliuolo. Così si rassegnava. Era sincero? Non lo dimostrò abbastanza alla morte della signora Guendalina. La pianse, oh la pianse molto, e sempre la ricordò con una devozione così rispettosa che, al posto di lei, non volle più mettere un'altra signora - che! che! - e lo avrebbe potuto bene, ricco come già s'era fatto; ma prese la figlia d'un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra; e così unicamente perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole desiderata. Se si affrettò un po' troppo, via... bisogna pur considerare che non era più un giovanotto e tempo da perdere non ne aveva. Oliva, figlia di Pietro Salvoni, nostro fattore a Due Riviere, io la conoscevo bene, da ragazza. Per cagion sua, quante speranze non feci concepire alla mamma: ch'io stessi cioè per metter senno e prender gusto alla campagna. Non capiva più nei panni, dalla consolazione, poveretta! Ma un giorno la terribile zia Scolastica le aprì gli occhi: - E non vedi, sciocca, che va sempre a Due Riviere? - Sì, per il raccolto delle olive. - D'un'oliva, d'un'oliva, d'un'oliva sola, bietolona! La mamma allora mi fece una ramanzina coi fiocchi: che mi guardassi bene dal commettere il peccato mortale d'indurre in tentazione e di perdere per sempre una povera ragazza, ecc., ecc. Ma non c'era pericolo. Oliva era onesta, di una onestà incrollabile, perché radicata nella coscienza del male che si sarebbe fatto, cedendo. Questa coscienza appunto le toglieva tutte quelle insulse timidezze de' finti pudori, e la rendeva ardita e sciolta. Come rideva! Due ciriege, le labbra. E che denti! Ma, da quelle labbra, neppure un bacio; dai denti, sì, qualche morso, per castigo, quand'io la afferravo per le braccia e non volevo lasciarla se prima non le allungavo un bacio almeno su i capelli. Nient'altro. Ora, così bella, così giovane e fresca, moglie di Batta Malagna... Mah! Chi ha il coraggio di voltar le spalle a certe fortune? Eppure Oliva sapeva bene come il Malagna fosse diventato ricco! Me ne diceva tanto male, un giorno, poi, per questa ricchezza appunto, lo sposò. Passa intanto un anno dalle nozze; ne passano due; e niente figliuoli. Malagna, entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla prima moglie solo per la sterilità o per la infermità continua di questa, non concepiva ora neppur lontanamente il sospetto che potesse dipender da lui. E cominciò a mostrare il broncio a Oliva. - Niente? - Niente. Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla apertamente; e in fine, dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al colmo dell'esasperazione, si mise a malmenarla senza alcun ritegno; gridandole in faccia che con quella apparente floridezza ella lo aveva ingannato, ingannato, ingannato; che soltanto per aver da lei un figliuolo egli l'aveva innalzata fino a quel posto, già tenuto da una signora, da una vera signora, alla cui memoria, se non fosse stato per questo, non avrebbe fatto mai un tale affronto. La povera Oliva non rispondeva, non sapeva che dire; veniva spesso a casa nostra per sfogarsi con mia madre, che la confortava con buone parole a sperare ancora, poiché infine era giovane, tanto giovane: - Vent'anni? - Ventidue... E dunque, via! S'era dato più d'un caso d'aver figliuoli anche dopo dieci, anche dopo quindici anni dal giorno delle nozze. - Quindici? Ma, e lui? Lui era già vecchio; e se... A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto che, via, tra lui e lei - come dire? - la mancanza potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si ostinasse a dir di no. Ma se ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva giurato a se stessa di mantenersi onesta, e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento. Come le so io queste cose? Oh bella, come le so!... Ho pur detto che ella veniva a sfogarsi a casa nostra; ho detto che la conoscevo da ragazza; ora la vedevo piangere per l'indegno modo d'agire e la stupida e provocante presunzione di quel laido vecchiaccio, e... debbo proprio dir tutto? Del resto, fu no; e dunque basta. Me ne consolai presto. Avevo allora, o credevo d'avere (ch'è lo stesso) tante cose per il capo. Avevo anche quattrini, che - oltre al resto - forniscono pure certe idee, le quali senza di essi non si avrebbero. Mi ajutava però maledettamente a spenderli Gerolamo II Pomino, che non ne era mai provvisto abbastanza, per la saggia parsimonia paterna. Mino era come l'ombra nostra; a turno, mia e di Berto; e cangiava con meravigliosa facoltà scimmiesca, secondo che praticava con Berto o con me. Quando s'appiccicava a Berto, diventava subito un damerino; e il padre allora, che aveva anche lui velleità d'eleganza, apriva un po' la bocca al sacchetto. Ma con Berto ci durava poco. Nel vedersi imitato finanche nel modo di camminare, mio fratello perdeva subito la pazienza, forse per paura del ridicolo, e lo bistrattava fino a cavarselo di torno. Mino allora tornava ad appiccicarsi a me; e il padre a stringer la bocca al sacchetto. Io avevo con lui più pazienza, perché volentieri pigliavo a godermelo. Poi me ne pentivo. Riconoscevo d'aver ecceduto per causa sua in qualche impresa, o sforzato la mia natura o esagerato la dimostrazione de' miei sentimenti per il gusto di stordirlo o di cacciarlo in qualche impiccio, di cui naturalmente soffrivo anch'io le conseguenze. Ora Mino, un giorno, a caccia, a proposito del Malagna, di cui gli avevo raccontato le prodezze con la moglie, mi disse che aveva adocchiato una ragazza, figlia d'una cugina del Malagna appunto, per la quale avrebbe commesso volentieri qualche grossa bestialità. Ne era capace; tanto più che la ragazza non pareva restìa; ma egli non aveva avuto modo finora neppur di parlarle. - Non ne avrai avuto il coraggio, va' là! - dissi io ridendo. Mino negò; ma arrossì troppo, negando. - Ho parlato però con la serva, - s'affrettò a soggiungermi. - E n'ho saputo di belle, sai? M'ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e che, così all'aria, le sembra che mediti qualche brutto tiro, d'accordo con la cugina, che è una vecchia strega. - Che tiro? - Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura di non aver figliuoli. La vecchia, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla morte della prima moglie del Malagna, si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi; che poi, disillusa, n'abbia detto di tutti i colori all'indirizzo di quel bestione, nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia presa anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sé lo zio. Ora, infine, che il vecchio si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la nipote, chi sa qual'altra perfida idea quella strega può aver concepito. Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino: - Sta' zitto! Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia - avendo notizia delle scene ch'erano avvenute e avvenivano in casa Malagna - pensai che il sospetto di quella serva potesse in qualche modo esser fondato, e volli tentare, per il bene d'Oliva, se mi fosse riuscito d'appurare qualche cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di quella strega. Mino mi si raccomandò per la ragazza. - Non dubitare, - gli risposi. - La lascio a te, che diamine! E il giorno dopo, con la scusa d'una cambiale, di cui per combinazione quella mattina stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar Malagna in casa della vedova Pescatore. Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore. - Malagna, la cambiale! Se già non avessi saputo ch'egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei accorto senza dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido, scontraffatto, balbettando: - Che... che cam..., che cambiale? - La cambiale così e così, che scade oggi... Mi manda la mamma, che n'è tanto impensierita! Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo spavento che per un istante lo aveva oppresso. - Ma fatto!... tutto fatto!... Perbacco, che soprassalto... L'ho rinnovata, eh? a tre mesi, pagando i frutti, s'intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco? E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m'invitò a sedere; mi presentò alle donne. - Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote. Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa. - Romilda, se non ti dispiace... Come se fosse a casa sua. Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia: - Ma no! ma no! Da' qua! Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt'intorno, che tintinnivano. Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda, no. Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore. Non mi parve, dall'aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse con molto piacere l'annunzio d'una mia seconda visita: mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione: occhi d'uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l'ebano, ondulati, che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle. La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell'ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un'umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d'affamato. C'era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore. Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch'erano opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, - aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il ritratto. - Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio. Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc'anzi pensato: « Somiglierà al padre! ». Adesso, di fronte al ritratto di questo, non sapevo più che pensare. Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi, vedova Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta bello, capace d'essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo più pazzo del marito. Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore d'ammirazione, ch'egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta e d'aver la mia approvazione. Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l'aria d'essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza. - E come? - mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra. - Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare a me: t'ajuterò. Codesta avventura mi piace. - Eh... ma... - obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi sulle spine nel vedermi così infatuato. - Tu diresti forse... sposarla? - Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse? - No, perché? - Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch'ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c'è dubbio, e ti piace, non è vero?) - oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell'altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame: proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un'opera santa, di salvazione? - Io no... no! - fece Pomino. - Ma... mio padre? - S'opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella, sai? è figlia d'un artista, d'un valentissimo incisore, morto... sì, morto bene, insomma, a Torino... Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può dunque contentare, senza badare alla dote! Che se poi, con le buone, non riesci a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e s'aggiusta ogni cosa. Pomino, hai il cuore di stoppa? Pomino rise, e io allora gli dimostrai quattro e quattr'otto che egli era nato marito, come si nasce poeta. Gli descrissi a vivi colori, seducentissimi, la felicità della vita coniugale con la sua Romilda; l'affetto, le cure, la gratitudine ch'ella avrebbe avuto per lui, suo salvatore. E, per concludere: - Tu ora, - gli dissi, - devi trovare il modo e la maniera di farti notare da lei e di parlarle o di scriverle. Vedi, in questo momento, forse, una tua lettera potrebbe essere per lei, assediata da quel ragno, un'àncora di salvezza. Io intanto frequenterò la casa; starò a vedere; cercherò di cogliere l'occasione di presentarti. Siamo intesi? - Intesi. Perché mostravo tanta smania di maritar Romilda? - Per niente. Ripeto: per il gusto di stordire Pomino. Parlavo e parlavo, e tutte le difficoltà sparivano. Ero impetuoso, e prendevo tutto alla leggera. Forse per questo, allora, le donne mi amavano, non ostante quel mio occhio un po' sbalestrato e il mio corpo da pezzo da catasta. Questa volta, però, - debbo dirlo - la mia foga proveniva anche dal desiderio di sfondare la trista ragna ordita da quel laido vecchio, e farlo restare con un palmo di naso; dal pensiero della povera Oliva; e anche - perché no? - dalla speranza di fare un bene a quella ragazza che veramente mi aveva fatto una grande impressione. Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho io se Romilda, invece d'innamorarsi di Pomino, s'innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch'io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d'una volta, con le mie uscite balzane? Le vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non dubbii segni di essere innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso la sua iniqua idea, se pure le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto finalmente a dubitarne! Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m'era più avvenuto d'incontrarmi col Malagna in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch'ella mi ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale, poiché io ogni volta, per aver maggior libertà, proponevo gite in campagna, che si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato anch'io di Romilda, pur seguitando sempre a parlarle dell'amore di Pomino; innamorato come un matto di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche d'un piccolo porro ch'ella aveva sulla nuca, ma finanche d'una cicatrice quasi invisibile in una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo... per conto di Pomino, perdutamente. Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda (eravamo alla Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino), tutt'a un tratto, smettendo lo scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido amante lontano, non avesse avuto un'improvvisa convulsione di pianto e non m'avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi tutta tremante che avessi pietà di lei; me la togliessi comunque, purché via lontano, lontano dalla sua casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti subito, subito, subito... Lontano? Come potevo così subito condurla via lontano? Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a tutto, onestamente. E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del mio prossimo matrimonio, ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando, senza saper perché, mi vidi arrivare una lettera secca secca di Romilda, che mi diceva di non occuparmi più di lei in alcun modo e di non recarmi mai più in casa sua, considerando come finita per sempre la nostra relazione. Ah sì? E come? Che era avvenuto? Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma ch'ella era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa era per sempre distrutta. Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figliuoli; era venuto ad annunziarglielo, trionfante. Ero presente a questa scena. Come abbia fatto a frenarmi lì per lì, non so. Mi trattenne il rispetto per la mamma. Soffocato dall'ira, dalla nausea, scappai a chiudermi in camera, e solo, con le mani tra i capelli, cominciai a domandarmi come mai Romilda, dopo quanto era avvenuto fra noi, si fosse potuta prestare a tanta ignominia! Ah, degna figlia della madre! Non il vecchio soltanto avevano entrambe vilissimamente ingannato, ma anche me, anche me! E, come la madre, anche lei dunque si era servita di me, vituperosamente, per il suo fine infame, per la sua ladra voglia! E quella povera Oliva, intanto! Rovinata, rovinata... Prima di sera uscii, ancor tutto fremente, diretto alla casa d'Oliva. Avevo con me, in tasca, la lettera di Romilda. Oliva, in lagrime, raccoglieva le sue robe: voleva tornare dal suo babbo, a cui finora, per prudenza, non aveva fatto neppure un cenno di quanto le era toccato a soffrire. - Ma, ormai, che sto più a farci? - mi disse. - E' finita! Se si fosse almeno messo con qualche altra, forse... - Ah tu sai dunque, - le domandai, - con chi s'è messo ? Chinò più volte il capo, tra i singhiozzi, e si nascose la faccia tra le mani. - Una ragazza! - esclamò poi, levando le braccia. E la madre! la madre! la madre! D'accordo, capisci? La propria madre! - Lo dici a me? - feci io. - Tieni: leggi. E le porsi la lettera. Oliva la guardò, come stordita; la prese e mi domandò: - Che vuol dire? Sapeva leggere appena. Con lo sguardo mi chiese se fosse proprio necessario ch'ella facesse quello sforzo, in quel momento. - Leggi, - insistetti io. E allora ella si asciugò gli occhi, spiegò il foglio e si mise a interpretar la scrittura, pian piano, sillabando. Dopo le prime parole, corse con gli occhi alla firma, e mi guardò, sgranando gli occhi: - Tu? - Da' qua, - le dissi, - te la leggo io, per intero. Ma ella si strinse la carta contro il seno: - No! - gridò. - Non te la do più! Questa ora mi serve! - E a che potrebbe servirti? - le domandai, sorridendo amaramente. - Vorresti mostrargliela? Ma in tutta codesta lettera non c'è una parola per cui tuo marito potrebbe non credere più a ciò che egli invece è felicissimo di credere. Te l'hanno accalappiato bene, va' là! - Ah, è vero! è vero! - gemette Oliva. - Mi è venuto con le mani in faccia, gridandomi che mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l'onorabilità di sua nipote! - E dunque? - dissi io, ridendo acre. - Vedi? Tu non puoi più ottener nulla negando. Te ne devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo ch'egli può aver figliuoli... comprendi? Ora perché mai, circa un mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la schiuma ancora alla bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione perché io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana? Soggiunse che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta, non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi quella creatura, quando sarebbe nata, come sua. Ma ora che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione d'aver un figliuolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare anche da padre a quell'altro che sarebbe nato da sua nipote. - Mattia provveda! Mattia ripari! - concluse, congestionato dal furore. - E subito! Mi si obbedisca subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare qualche sproposito! Ragioniamo un po', arrivati a questo punto. Io n'ho viste di tutti i colori. Passare anche per imbecille o per... peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un gran guajo. Già - ripeto - son come fuori della vita, e non m'importa più di nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la logica. Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per indurre in inganno lo zio. Altrimenti, perché Malagna avrebbe subito a suon di busse rinfacciato alla moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre d'aver recato oltraggio alla nipote? Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa, sua madre, avendo ricevuto da lei la confessione dell'amore che ormai la legava a me indissolubilmente, montata su tutte le furie, le aveva gridato in faccia che mai e poi mai avrebbe acconsentito a farle sposare uno scioperato, già quasi all'orlo del precipizio. Ora, poiché da sé, ella, aveva recato a se stessa il peggior male che a una fanciulla possa capitare, non restava più a lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale fosse, era facile intendere. Venuto, al- l'ora solita, il Malagna, ella andò via, con una scusa, e la lasciò sola con lo zio. E allora, lei, Romilda, piangendo - dice - a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui, gli fece intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò d'interporsi, d'indurre la madre a più onesti consigli, poiché ella era già d'un altro, a cui voleva serbarsi fedele. Malagna s'intenerì - ma fino a un certo segno. Le disse che ella era ancor minorenne, e perciò sotto la potestà della madre, la quale, volendo, avrebbe potuto anche agire contro di me, giudiziariamente; che anche lui, in coscienza, non avrebbe saputo approvare un matrimonio con un discolo della mia forza, sciupone e senza cervello, e che non avrebbe potuto perciò consigliarlo alla madre; le disse che al giusto e naturale sdegno materno bisognava che lei sacrificasse pure qualche cosa, che sarebbe poi stata, del resto, la sua fortuna; e concluse che egli non avrebbe potuto infine far altro che provvedere - a patto però che si fosse serbato con tutti il massimo segreto - provvedere al nascituro, fargli da padre, ecco, giacché egli non aveva figliuoli e ne desiderava tanto e da tanto tempo uno. Si può essere - domando io - più onesti di così? Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al figliuolo nascituro. Che colpa ha lui, se io, - poi, - ingrato e sconoscente, andai a guastargli le uova nel paniere? Due, no! eh, due, no, perbacco! Gli parvero troppi, forse perché avendo già Roberto, com'ho detto, contratto un matrimonio vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover rendere anche per lui. In conclusione, si vede che - capitato in mezzo a così brava gente - tutto il male lo avevo fatto io. E dovevo dunque scontarlo. Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già vedeva la rovina della nostra casa e sperava ch'io potessi in qualche modo salvarmi, sposando la nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai. Mi pendeva, tremenda, sul capo l'ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore.

 

CE FUT AINSI

Un jour, à la chasse je m’arrêtai étrangement impressionné, devant un tas de gerbes, court et pansu, dont le bâton central était surmonté d’une casserole. – Je te connais, lui disais-je, je te connais… Puis, tout à coup, je m’écriai : – Tiens ! Batta Malagna. Je pris une fourche, qui traînait là par terre, et je la lui plantai dans la panse avec tant de volupté, qu’il s’en fallut de peu que la casserole ne tombât. Et voilà mon Batta Malagna, quand, suant et soufflant, il portait son chapeau en casseur d’assiettes. Tout glissait en lui : ses sourcils et ses yeux glissaient de-ci de-là sur sa longue face ; son nez glissait sur ses moustaches niaises et sur sa barbiche ; ses épaules glissaient depuis la jointure du cou ; sa panse énorme et flasque glissait presque jusqu’à terre, car, vu la proéminence qu’elle formait sur ses jambes cagneuses, le tailleur, pour l’habiller, était forcé de lui tailler des pantalons démesurément larges, de sorte que de loin il semblait avoir endossé, beaucoup trop bas, une veste dont la panse lui arrivait aux pieds. Maintenant, comment, avec une face et un corps ainsi bâtis, Malagna pouvait-il être aussi voleur ? Je ne sais. Même les voleurs, j’imagine, doivent avoir une certaine surface qu’il ne me paraissait pas avoir. Il allait tout doucement, avec ce bedon pendant, toujours les mains derrière le dos, et semblait peiner infiniment pour émettre cette voix molle et miaulante ! Il me plairait de savoir comment il mettait sa conscience d’accord avec les larcins qu’il perpétrait continuellement à notre préjudice. Il n’en avait nul besoin. Il lui fallait donc bien se donner à lui-même une raison, une excuse… Peut-être, tout simplement, volait-il pour se distraire un peu, le pauvre homme ? Car, dans son intérieur, il devait être épouvantablement affligé d’une de ces épouses qui savent se faire respecter. Il avait commis l’erreur de choisir une femme de rang supérieur au sien, qui était fort bas. Or cette femme, mariée à un homme de condition égale à la sienne, n’aurait peut-être pas été aussi insupportable qu’elle l’était avec lui, à qui naturellement elle devait démontrer, à la moindre occasion, qu’elle était de bonne naissance et que chez elle on faisait ainsi et ainsi. Et voilà mon Malagna docile à faire ainsi et ainsi, comme elle disait, pour paraître un monsieur lui aussi. Mais il lui en coûtait tant ! Il suait toujours, il suait ! Par surcroît, madame Guendoline, peu après le mariage, fut prise d’un mal dont elle ne put jamais guérir, car, pour en guérir, elle aurait dû faire un sacrifice supérieur à ses forces : se priver, ni plus ni moins, de certains gâteaux aux truffes, qu’elle aimait tant, et d’autres semblables gourmandises, et même, et avant tout, de vin. Non qu’elle en bût beaucoup, madame Guendoline ; pensez donc : elle était de noble naissance ; mais elle n’en aurait pas dû boire même un doigt. Berto et moi, tout gamins, étions parfois invités à déjeuner par Malagna. C’était un plaisir de l’entendre faire, avec tous les égards convenables, un sermon à sa femme sur la continence, tandis que lui mangeait, dévorait avec volupté les mets les plus succulents : – Je n’admets pas – disait-il – que pour le plaisir momentané qu’éprouve le gosier au passage d’un morceau, par exemple, comme celui-ci (et il avalait le morceau) on puisse se faire mal pour une journée entière. La belle affaire ! Pour moi, je suis sûr que je m’en sentirais, ensuite, profondément avili. Rosine ! (il appelait la servante) donne-m’en encore un peu. Excellente, cette sauce mayonnaise ! – En attendant, éclatait son épouse, piquée au vif, en s’agitant sur sa chaise, je te ferai observer qu’il est de bien mauvais goût de parler la bouche pleine. Malagna restait mal à l’aise ; il avalait la bouchée rendue amère et disait, en se nettoyant la bouche : – Tu as raison, chère amie. – Et puis, poursuivait la dame, merci bien ! Tu parles ainsi parce que tu es sûr que rien ne te fait mal. Je voudrais te voir si tu avais un estomac de papier mâché, comme celui que je me suis fait, moi. Tiens, le Seigneur devrait t’en faire tâter ! Tu apprendrais ainsi à avoir un peu de considération pour ton épouse. – Comment, Guendoline ! Est-ce que je n’en ai pas ? se récriait Malagna. – Mais oui, beaucoup ! Veux-tu te taire ! Si tu aimais vraiment ton épouse, si tu t’intéressais un tant soit peu à sa santé, sais-tu comment tu devrais faire ? Comme cela… Elle se levait de sa chaise, lui prenait des mains son verre et allait verser le vin par la fenêtre ! – Comme cela ! – Et pourquoi ? demandait Malagna, restant là, ahuri. – Pourquoi ? Parce que pour moi, c’est du poison ! Et chaque fois que tu m’en vois verser un doigt dans mon verre, tu devrais me le prendre des mains et aller le jeter par la fenêtre, comme j’ai fait, comprends-tu ? Malagna mortifié, souriant, regardait un peu Berto, un peu moi, un peu la fenêtre, puis disait : – Oh ! Mon Dieu ! mais es-tu donc une gamine ? Moi, par la violence ? Mais non, chère amie ; c’est toi, toi, toute seule, avec ta raison, qui dois t’imposer le frein… – Oui, concluait sa femme, oui, avec la tentation sous les yeux, en te regardant boire d’autant, et le savourer et le regarder à contre-jour pour me dépiter. Veux-tu te taire, te dis-je ! Si tu étais un autre mari, pour ne pas me faire souffrir… Eh bien ! Malagna en arriva là : il ne but plus de vin pour donner un exemple de continence à sa femme, pour ne pas la faire souffrir. Et puis, il volait… Eh ! parbleu ! Il fallait pourtant bien qu’il fît quelque chose. Cependant, peu après, il vint à savoir que madame Guendoline le buvait en cachette, elle, son vin. Comme si, pour que cela ne lui fît point de mal, il pouvait suffire que son mari ne s’en aperçût point. Et alors, lui aussi, Malagna, se remit à boire, mais au-dehors, pour ne pas mortifier sa femme. Il continua toutefois à voler, c’est vrai. Mais je sais qu’il désirait de tout son coeur que sa femme lui donnât une compensation aux afflictions sans fin qu’elle lui ménageait ; il désirait qu’un beau jour elle se résolût à lui mettre au monde un fils. Voilà ! Le vol aurait eu alors un but, une excuse. Que ne fait-on pas pour le bien de ses enfants ? Sa femme pourtant dépérissait de jour en jour et Malagna n’osait même pas lui exprimer son désir le plus ardent. Peut-être était-elle aussi stérile, de nature. Il fallait avoir tant d’égards pour son mal ! Si ensuite elle allait mourir en couches, grands dieux ?… Ainsi, il se résignait. Était-il sincère ? Il ne le prouva pas à la mort de madame Guendoline. Il la pleura, oh ! Il la pleura beaucoup, et il en garda le souvenir avec une dévotion si respectueuse qu’il ne voulut plus mettre à sa place une autre dame, – comment donc ! – et il l’aurait bien pu, riche comme il était déjà ; mais il prit la fille d’un fermier de campagne, saine, florissante, robuste et allègre, et cela uniquement pour qu’il ne pût être douteux qu’il n’en dût avoir le rejeton désiré. S’il se hâta un peu trop, bah !… Il faut pourtant considérer qu’il n’était plus un jeune homme et n’avait pas de temps à perdre. Olive, la fille de Pierre Salvoni, notre fermier aux Deux-Rivières, je la connaissais bien depuis son enfance. Grâce à elle, que d’espérance je fis concevoir à ma mère ; si j’allais devenir sérieux et prendre goût à la campagne ! Elle en était aux anges, de cette consolation, la pauvrette ! Mais, un jour, la terrible tante Scholastique lui ouvrit les yeux : – Et ne vois-tu pas, sotte, qu’il va toujours aux Deux-Rivières ? – Oui, pour la récolte des olives. – D’une olive, d’une olive, d’une seule olive, nigaude ! Ma mère me fit alors une mercuriale soignée : – Garde-toi bien d’induire en tentation et de perdre pour toujours une pauvre fille ! etc. Mais il n’y avait pas de danger. Olive était honnête, d’une honnêteté inébranlable, parce que enracinée dans la conscience du mal qu’elle se ferait en cédant. C’était justement cette conscience qui lui enlevait toutes ces fades timidités de pudeurs feintes, et la rendait hardie et libre. Comme elle riait ! Deux cerises, ses lèvres. Et quelles dents ! Mais, de ces lèvres, pas même un baiser ; des dents, oui, quelques morsures, pour me punir, quand je lui donnais un baiser sur les cheveux. Rien de plus. À présent, si belle, si jeune et si fraîche, épouse de Batta Malagna… Eh ! qui a le courage de tourner le dos à certaines fortunes ? Et pourtant Olive savait bien comment Malagna était devenu riche ! Elle m’en disait tout le mal possible, un jour ; et puis, justement pour cette richesse, elle l’épousa. Cependant, il se passa un an après les noces ; il s’en passa deux, et pas de fils. Malagna, ancré depuis si longtemps dans la conviction que, s’il n’en avait pas eu de sa première femme, c’était seulement à cause de la stérilité de celle-ci, commença à tenir rigueur à Olive. Il attendit encore un an, le troisième, en vain. Alors il commença à la rabrouer ouvertement, et, à la fin, après une autre année, désespérant cette fois pour toujours, au comble de l’exaspération, il se mit à la malmener sans aucune retenue, lui criant dans la figure qu’avec cette apparence florissante elle l’avait trompé, trompé, trompé ; que c’était seulement pour avoir d’elle un enfant qu’il l’avait élevée jusqu’à cette situation, occupée autrefois par une dame, une vraie dame, à la mémoire de laquelle, si ce n’eût été pour cela, il n’aurait jamais fait un tel tort. La pauvre Olive ne répondait pas ; elle venait souvent s’épancher avec ma mère, qui l’engageait avec de bonnes paroles à espérer encore, car enfin elle était jeune, si jeune ! – Vingt ans ? – Vingt-deux… – Eh bien ! donc ! On avait vu plus d’une fois avoir des enfants même après vingt ans de mariage. Quinze ? Mais lui était déjà vieux, et si… Olive, en se mariant, s’était juré à elle-même de se conserver honnête, et elle ne voulait pas, même pour retrouver la paix, manquer à son serment. Comment sais-je ces choses ? Oh ! Parbleu ! Comment je les sais !… N’ai-je pas dit qu’elle venait s’épancher chez nous ? N’ai-je pas dit que je la connaissais depuis son enfance ? Et, à présent, je la voyais pleurer à cause de l’indigne façon d’agir de ce vilain vieillard. Pourtant, je m’en consolai vite. J’avais alors, ou je croyais avoir (ce qui revient au même), tant de choses en tête ! J’avais aussi de l’argent, ce qui – outre le reste – fournit encore certaines idées qu’on n’aurait pas sans cela. J’avais pour m’aider à le dépenser Jérôme Pomino, qui n’en était jamais pourvu à suffisance, grâce à la sage parcimonie paternelle. Mino était comme notre ombre : la mienne et celle de Berto tour à tour ; il se transformait avec une facilité simiesque merveilleuse, selon qu’il fréquentait Berto ou moi. Quand il s’attachait à Berto, il devenait tout à coup un damoiseau, et alors son père, qui avait lui aussi des velléités d’élégance entrouvrait un peu son sac. Mais avec Berto cela durait peu. À se voir imité jusque dans sa démarche, mon frère perdait tout de suite patience, peut-être par peur du ridicule, et il le maltraitait jusqu’à ce qu’il en fût débarrassé. Alors Mino revenait s’attacher à moi, et son père de resserrer les cordons du sac. J’avais plus de patience avec lui, parce que je prenais plaisir à m’amuser de lui. Puis je m’en repentais. Je reconnaissais avoir, à cause de lui, forcé ma nature dans quelques entreprises ou exagéré la démonstration de mes sentiments pour le plaisir de l’étourdir ou de le pousser dans des embarras dont naturellement je souffrais, moi aussi, les conséquences. Or, Mino, un jour, à la chasse, à propos de Malagna, dont je lui avais raconté les prouesses matrimoniales, me dit qu’il avait jeté les yeux sur une jeune personne, fille d’une cousine de Malagna justement, pour laquelle il aurait volontiers commis quelque sottise. Il en était capable ; d’autant plus que la jeune fille ne paraissait pas farouche ; mais jusqu’à présent, il n’avait même pas trouvé le moyen de lui parler. – Tu n’en auras pas eu le courage, parbleu ! lui dis-je en riant. Mino nia, mais rougit un peu trop en riant. – J’ai parlé pourtant avec la servante, se hâta-t-il d’ajouter. Et j’en ai su de belles, tu sais ? Elle m’a dit que ton Malagna était chez elles, et qu’à son air, il lui semblait méditer quelque vilain tour, d’accord avec la cousine, qui est une vieille sorcière. – Quel tour ? – Eh ! Elle dit qu’il va là pleurer son infortune de n’avoir pas d’enfants. La vieille dure, renfrognée, lui répond que c’est bien fait. Il paraît qu’à la mort de la première femme de Malagna, elle s’était mis en tête de lui faire épouser sa propre fille, et s’était employée de toutes les manières pour y réussir. À présent, enfin, que le vieux manifeste tant de repentir de ne l’avoir pas écoutée, qui sait quelle autre idée perfide cette sorcière pouvait avoir conçue ? Je me bouchai les oreilles avec les mains en criant à Mino : – Tais-toi. Tout naïf que j’étais alors pourtant, – ayant connaissance des scènes qui s’étaient produites et se produisaient chez Malagna, – je pensai que le soupçon de la servante pouvait être fondé dans une certaine mesure, et je voulus voir, pour le bien d’Olive, si je réussirais à éclaircir un peu la situation. Je me fis donner par Mino l’adresse de cette sorcière. Mino se recommanda à moi pour la jeune fille. – N’aie pas peur ! lui répondis-je. Et le lendemain, sous le prétexte d’une traite échue le matin même, comme je l’avais su par hasard de ma mère, j’allai dénicher Malagna dans la maison de la veuve Pescatore. J’avais couru exprès, et je me précipitai à l’intérieur tout échauffé et en sueur. – Malagna, la traite ! Si je n’avais pas su déjà qu’il n’avait pas la conscience nette, je m’en serais aperçu sans doute possible ce jour-là, en le voyant se lever d’un bond, tout pâle, décomposé, balbutiant : – Quelle… quelle tr…, quelle traite ? – La traite échue aujourd’hui… C’est maman qui m’envoie ; elle en est bien en peine. Batta Malagna retomba assis, exhalant en un « ah ! » interminable toute la terreur qui, pour un instant l’avait oppressé. – Mais c’est fait !… tout est fait !… Bon Dieu ! quelle secousse !… Je l’ai renouvelée, eh ! à trois mois, en payant les intérêts, naturellement. Tu as fait cette course pour si peu ? Et il rit, rit, faisant sursauter sa bedaine ; il m’invita à m’asseoir, me présenta aux dames. – Mathias Pascal, Marianne Dondi, veuve Pescatore ; Romilda, sa fille, et… ma nièce. Il voulut que, pour me remettre de ma course, je busse quelque chose. – Romilda, si cela ne te dérange pas… Comme s’il eût été chez lui. Romilda se leva, en regardant sa mère pour prendre conseil dans ses yeux, et, un instant après, malgré mes protestations, revint avec un petit plateau sur lequel étaient un petit verre et une bouteille de vermout. Aussitôt, à cette vue, sa mère se leva, dépitée, lui disant : – Mais non ! mais non ! Donne ici ! Elle lui prit le plateau des mains et sortit pour rentrer au bout d’un instant avec un autre plateau de laque, flambant neuf, qui supportait un magnifique service à liqueurs : un éléphant argenté, un tonneau de verre sur l’échine et un grand nombre de petits verres suspendus tout autour qui tintaient. J’aurais préféré le vermout. Je bus le rossolis. Malagna et la mère en burent aussi. Romilda, non. Je restai peu, cette première fois, afin d’avoir une excuse pour revenir. Je dis que j’avais hâte de rassurer ma mère au sujet de cette traite, et que je reviendrais dans quelques jours pour jouir plus à mon aise de la compagnie de ces dames. Il ne me parut pas, à l’air dont elle me salua, que Marianne Dondi, veuve Pescatore, accueillît avec beaucoup de plaisir l’annonce d’une seconde visite : elle me tendit à peine la main, main glacée, sèche, noueuse, jaunâtre ; elle baissa les yeux et pinça les lèvres. La fille me gratifia, en compensation, d’un sourire sympathique qui promettait un accueil cordial et d’un regard doux et triste en même temps, de ces yeux qui me firent, dès la première entrevue, une si forte impression : yeux d’une étrange couleur verte, profonds, intenses, ombragés de cils très longs ; yeux de nuit, entre deux bandeaux de cheveux noirs comme l’ébène, ondulés, qui lui descendaient sur le front et sur les tempes, comme pour mieux faire ressortir la blancheur éclatante de la peau. La maison était modeste ; mais déjà parmi les vieux meubles, on remarquait quelques nouveaux venus prétentieux et gauches dans l’ostentation de leur nouveauté trop évidente : deux grandes lampes de faïence, par exemple, n’ayant encore jamais servi, aux globes de verre dépoli, d’un goût étrange, sur une console basse au marbre jauni, qui supportait un miroir sombre dans un cadre rond, effrité par places, qui semblait s’ouvrir dans la chambre comme un bâillement d’affamé. Il y avait encore, devant un divan affaissé, un guéridon aux quatre pieds dorés, avec un dessus de porcelaine peint de couleurs trop vives ; puis une étagère de laque japonaise, etc., et sur ces objets nouveaux, les yeux de Malagna s’arrêtaient avec une complaisance évidente, comme tout à l’heure sur le service apporté en triomphe par sa cousine, veuve Pescatore. Les murs de la pièce étaient presque tout entiers tapissés de vieilles estampes, point laides, dont Malagna voulut me faire admirer quelquesunes, en me disant qu’elles étaient l’oeuvre de François-Antoine Pescatore, son cousin, graveur de grand talent (mort fou, à Turin, ajouta-t-il tout bas), dont il voulut aussi me montrer le portrait. – Exécuté de ses propres mains, devant le miroir. Tout à l’heure, en regardant Romilda, puis sa mère, j’avais pensé : « Elle ressemble sans doute à son père ! » À présent, devant le portrait de celui-ci, je ne savais plus que penser. Je ne veux pas hasarder de suppositions outrageantes. J’estime, il est vrai, Marianne Dondi, veuve Pescatore, capable de tout ; mais comment imaginer un homme et un bel homme encore, capable de s’être amouraché d’elle ? À moins qu’il ne se fût rencontré un fou plus fou que le mari. Je rapportai à Mino les impressions de cette première visite. Je lui parlai de Romilda avec une telle chaleur d’admiration qu’il s’enflamma aussitôt, heureux comme tout qu’elle m’eût tant plu, à moi aussi, et d’avoir mon approbation. Alors je lui demandai quelles étaient ses intentions ; la mère, sans doute, avait tout l’air d’une sorcière ; mais la fille, je l’aurais juré, était honnête. Pas de doute à avoir sur les odieuses visées de Malagna : il fallait donc à tout prix, au plus vite, sauver la jeune fille. – Et comment ? me demanda Pomino, suspendu anxieusement à mes lèvres. – Comment ? Nous verrons. Laisse-moi faire : je t’aiderai. Cette aventure me plaît. – Eh !… mais !… objecta alors Pomino timidement, commençant à se sentir sur les épines. – Voudrais-tu dire ?… l’épouser ? – Je ne dis rien pour l’instant. Tu as peur, peut-être ? – Non ! Pourquoi ? – Je te vois courir trop vite. Doucement, et réfléchis. Si nous venons à apprendre qu’elle est véritablement bonne, sage, vertueuse (belle, elle l’est, il n’y a pas de doute, et elle te plaît, pas vrai ?) Oh ! supposons maintenant qu’elle soit vraiment exposée, par la scélératesse de sa mère et de cette autre canaille, à un péril grave, éprouverais-tu quelque hésitation devant un acte méritoire, une oeuvre sainte de rédemption ? – Moi ? non !… non ! fit Pomino. Mais… mon père. – Il s’y opposerait ? Pour quelle raison ? Pour la dot, pas vrai ? Pas pour autre chose ! Car, tu sais ? elle est fille d’un artiste, d’un graveur de grand talent, mort… oui, mort convenablement, en somme à Turin… Mais ton père est riche, et il n’a que toi : il peut donc te contenter, sans regarder à la dot ! Et du reste si, avec de bonnes paroles, tu ne réussis pas à le persuader, n’aie pas peur : une envolée hors du nid et tout s’arrange. Pomino, as-tu un coeur d’étoupe ? Pomino se mit à rire, et alors je lui démontrai, clair comme deux et deux font quatre, qu’il était né mari, comme on naît poète. Je lui décrivis, en couleurs vives et séduisantes, la félicité de la vie conjugale avec sa Romilda ; l’affection, les soins, la reconnaissance qu’elle aurait pour lui, son sauveur. Et pour conclure : – À toi, maintenant, lui dis-je, de trouver la façon de te faire remarquer d’elle et de lui parler ou de lui écrire. Vois, en ce moment, peut-être une lettre de toi pourrait être, pour elle, guettée par cette araignée, une ancre de salut. Pour moi, cependant, je fréquenterai la maison ; je serai là pour veiller : je chercherai à saisir l’occasion de te présenter. Nous sommes d’accord ? – D’accord ! Pourquoi en moi une telle démangeaison de marier Romilda ? Pour rien. Je le répète : pour le plaisir d’étourdir Pomino. Je parlais, parlais, et toutes les difficultés disparaissaient. J’étais impétueux et prenais tout à la légère. C’est peut-être pour cela, alors, que les femmes m’aimaient malgré cet oeil un peu indépendant et mon corps en bûche à équarrir. Cette fois, pourtant, je dois le dire, ma fougue provenait aussi du désir de défoncer la triste toile d’araignée ourdie par ce vilain vieillard et de le faire rester avec un pied de nez ; de la pensée de la pauvre Olive, et aussi, pourquoi pas ? de l’espérance de faire du bien à cette jeune fille qui, vraiment, m’avait fait grande impression. Est-ce ma faute si Pomino exécuta trop timidement mes prescriptions ? Est-ce ma faute si Romilda, au lieu de s’amouracher de Pomino, s’amouracha de moi, qui pourtant lui parlais toujours de lui ? Est-ce ma faute, enfin, si la perfidie de Marianne Dondi, veuve Pescatore, réussit à me faire croire que par mes propres talents en peu de temps j’avais réussi à vaincre sa défiance et à faire même un miracle : celui de la faire rire plus d’une fois avec mes sorties extravagantes ? Je me vis bien accueilli ; je pensai qu’avec un jeune homme à la maison, riche (je me croyais encore riche) et qui donnait des signes non équivoques d’être tombé amoureux de sa fille, elle avait finalement renoncé à son idée inique, si même elle lui avait jamais passé par la tête. C’est que j’étais arrivé jusqu’à en douter ! J’aurais dû, en vérité, faire attention à ce fait qu’il ne m’était plus arrivé de me rencontrer chez elle avec Malagna et que ce pouvait n’être pas sans raison qu’elle me recevait seulement le matin. Mais qui y prêtait attention ? C’était, du reste, naturel, puisque toutes les fois, pour avoir plus de liberté, je proposais des promenades à la campagne, qui se font plus volontiers le matin. Et puis, je m’étais épris, moi aussi, de Romilda, tout en continuant à lui parler sans cesse de l’amour de Pomino, épris comme un fou de ces beaux yeux, de ce petit nez, de cette bouche, de tout, jusqu’à une petite verrue qu’elle avait sur la nuque, jusqu’à une cicatrice presque invisible à une main, que je lui baisais pour le compte de Pomino, éperdument ! Et pourtant peut-être il ne serait rien arrivé de grave si un matin Romilda (nous étions à l’Épinette et nous avions laissé sa mère en train d’admirer le moulin), tout d’un coup, laissant là la plaisanterie désormais trop prolongée de son timide amant lointain, n’avait eu un accès de larmes imprévu et ne m’avait jeté les bras au cou en me conjurant, toute tremblante, d’avoir pitié d’elle, de l’emmener n’importe comment, pourvu que ce fût bien loin, bien loin de chez elle, loin de cette marâtre, de tous, tout de suite, tout de suite, tout de suite… Comment pouvais-je si vite l’emmener bien loin ? Après, pendant quelques jours, je cherchai le moyen, résolu à tout, honnêtement. Et déjà je commençais, par acquit de conscience, à préparer ma mère à la nouvelle de mon prochain mariage, désormais inévitable, quand, sans savoir pourquoi, je reçus une lettre toute sèche de Romilda, qui me disait de ne plus m’occuper d’elle en aucune façon, et de ne plus me rendre à sa maison, considérant nos relations comme finies pour toujours. Qu’était-il arrivé ? Le même jour, Olive accourut en pleurant chez nous annoncer à ma mère qu’elle était la plus malheureuse femme du monde, que la paix de sa maison était détruite pour toujours. Son mari avait réussi à établir la preuve qu’il ne tenait pas à lui s’ils n’avaient pas d’enfants ; il était venu le lui annoncer triomphalement. J’étais présent à cette scène. Comment je fis pour me contenir, je n’en sais rien. Je fus arrêté par le respect pour ma mère. Suffoqué par la colère, je me sauvai m’enfermer dans ma chambre et, tout seul, les mains dans les cheveux, je me mis à me demander comment Romilda, après tout ce qui s’était passé entre nous, avait pu se prêter à cette comédie. Ce n’était pas seulement le vieux qu’on avait vilement trompé, mais encore moi ! Et cette pauvre Olive abandonnée, perdue ! Avant le soir, je sortis, encore tout frémissant, et j’allai droit à la maison d’Olive. J’avais dans ma poche la lettre de Romilda. Olive, en larmes, rassemblait ses affaires ; elle voulait chez son père, à qui, jusqu’à présent, par prudence, elle n’avait même pas fait une allusion à ce qu’elle avait dû souffrir. – Mais, à présent, qu’ai-je à faire ici ? me dit-elle. C’est fini ! – Oh ! tu sais donc tout ? lui demandai-je. Elle inclina la tête à plusieurs reprises, parmi ses sanglots, et se cacha le visage entre les mains. – Une jeune fille ! s’écria-t-elle ensuite en levant les bras. Et la mère est d’accord ! – C’est à moi que tu le dis ? fis-je. Tiens ! lis ! Et je lui tendis la lettre. Olive la regarda comme étourdie, la prit et me demanda : – Qu’est-ce que cela veut dire ? – Lis ! insistai-je. Et alors elle s’essuya les yeux, déplia le feuillet et se mit à interpréter les lettres, lentement, en épelant. Après les premiers mots, ses yeux coururent à la signature, et elle me regarda, écarquillant les yeux : – Toi ? – Donne-moi, lui dis-je, je vais te la lire, moi, tout entière. Mais elle pressa le papier contre son sein : – Non ! cria-t-elle. Je ne te la donne plus ! À présent elle va me servir. – Et à quoi pourrait-elle te servir ? lui demandai-je en souriant amèrement. Dans toute cette lettre, il n’y a pas un mot grâce auquel ton mari pourrait ne plus croire à ce qu’il est au contraire très heureux de croire. Elles l’ont bien entortillé, va ! – Ah ! c’est vrai ! c’est vrai ! gémit Olive. – Et alors ? dis-je avec un ricanement. Tu vois ? Tu ne peux plus rien obtenir. * * * Maintenant, pourquoi diable, environ un mois plus tard, Malagna rossa-t-il furieusement sa femme, et, l’écume encore à la bouche, se précipita-t-il chez nous, criant qu’il exigeait sur-le-champ une réparation, parce que j’avais perdu sa nièce, une pauvre orpheline ? Il ajouta que, pour ne pas faire un scandale, il aurait voulu se taire. Par pitié, il avait même résolu d’adopter l’enfant de cette malheureuse, quand il serait né. Mais à présent que Dieu avait voulu lui donner la consolation d’avoir un fils légitime, né de sa propre épouse, il ne pouvait pas, il ne pouvait plus, en conscience, adopter celui qui allait naître de sa nièce. – Que Mathias y pourvoie ! Que Mathias répare ! conclut-il, congestionné par la fureur. Et tout de suite ! Qu’on m’obéisse tout de suite ! Et qu’on ne me force pas à en dire plus ou à faire quelque sottise ! Raisonnons un peu. Passer même pour imbécile ou pour pis, ne serait pas, au fond, pour moi, un grand malheur. Car, je le répète, je suis comme hors de la vie, et rien ne m’importe plus. Si donc, arrivé à ce point, je veux raisonner, c’est seulement pour la logique. Romilda affirma que peu après notre promenade à l’Épinette, sa mère, ayant reçu d’elle la confession de l’amour qui désormais la liait à moi indissolublement, était entrée en rage et lui avait dit que jamais, au grand jamais, elle ne consentirait à lui faire épouser un fainéant, déjà presque au bord du précipice. Malagna étant venu à l’heure ordinaire, la mère s’en alla avec une excuse et laissa sa fille seule avec l’oncle. Et alors, elle Romilda, en pleurant, dit-elle, à chaudes larmes, se jeta à ses pieds, lui fit entendre son malheur ; elle le pria de s’entremettre, d’amener sa mère à de meilleurs desseins, car elle m’appartenait et voulait se garder fidèle. Malagna s’attendrit, mais jusqu’à un certain point. Il lui dit qu’elle était encore mineure, et par suite sous l’autorité de sa mère, laquelle, si elle voulait, pourrait introduire contre moi une action en justice ; que, lui non plus, en conscience, ne saurait approuver un mariage avec un garnement de ma trempe, gaspilleur et sans cervelle. Il conclut qu’il ne pourrait enfin faire autre chose – à condition qu’on gardât avec tout le monde le plus grand secret – que de servir de père au nouveau-né, car il n’avait pas d’enfant et en désirait un depuis si longtemps ! Peut-on être, je vous le demande, plus honnête que cela ? Comme conclusion, on voit que – tombé au milieu de si braves gens – tout le mal, c’est moi qui l’avais fait. Je devais donc l’expier. Je refusai d’abord. Puis, grâce aux prières de ma mère qui voyait déjà la ruine de notre maison et espérait que je pourrais m’en sauver jusqu’à un certain point, en épousant la nièce de son ennemi, je cédai et j’épousai. Sur ma tête était suspendue, redoutable, l’ire de Marianne Dondi, veuve Pescatore.



 

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