XIII: Il lanternino
Quaranta giorni al bujo.
Riuscita, oh, riuscita benissimo l'operazione. Solo che l'occhio mi sarebbe forse rimasto un
pochino pochino più grosso dell'altro. Pazienza! E intanto, sì, al bujo quaranta giorni, in
camera mia.
Potei sperimentare che l'uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del
male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle
proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli
altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno
il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch'egli fa quasi per diritto, facilmente
si scusa.
Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d'esser confortato in
qualche modo crebbe fino all'esasperazione. Sapevo, si, di trovarmi in una casa estranea;
e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei ospiti delle cure delicatissime che avevano per
me. Ma non mi bastavano più, quelle cure; m'irritavano anzi, come se mi fossero usate per
dispetto. Sicuro! Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo
di esse, ch'ella era col pensiero quasi tutto il giorno Lì con me, in camera mia; e grazie della
consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo di qua e di là per casa,
tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in
grado d'intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla
o di sentirmela almeno vicina.
E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia
della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei forse rintanato lì per quaranta
giorni al bujo, se avessi saputo ch'egli doveva andar via cosi presto?
Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento
che il bujo era immaginario.
- Immaginario? Questo? - gli gridai.
- Abbia pazienza mi spiego.
E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero
fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua
concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia.
Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi:
- Dorme, signor Meis?
E io ero tentato di rispondergli:
- Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.
Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che
mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.
E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo
come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non
sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo,
è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne
risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della
vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che
ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci
fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o
meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe,
se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto
ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte
perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla
mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
- Dorme, signor Meis?
- Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo
lanternino.
- Ah, bene... Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh?
e cerchiamo piuttosto d'ine per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri
lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne
dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di
vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe
stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh?
In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume
e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e
che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?
Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è
alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi
la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi
singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi
rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere!
Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi
va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano,
s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano
a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non
trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor
Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione!
Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette
superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella
poesia di Niccolò Tommaseo:
La piccola mia lampa Non, come sol, risplende, Né, come incendio, fuma; Non stride e
non consuma, Ma con la cima tende Al ciel che me la diè.
Starà su me, sepolto, Viva; né pioggia o Vento, Né in lei le età potranno; E quei che
passeranno Erranti, a lume spento, Lo accenderan da me.
Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del
Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro
lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno
innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva,
cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno
accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e
pensando di continuo: « Dio mi vede! » per non udire i clamori della vita intorno, che suonano
ai loro orecchi come tante bestemmie. « Dio mi vede... » perché lo vedono loro, non
solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno
un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa
in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del
fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine
elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando io ora, signor Meis: E
se tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono,
e che ora, pur rinunziando all'indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in
fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non
si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di
noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi
abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma,
che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l'estinzione della vita, ma il soffio
che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa,
penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve
àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui
la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale,
eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e
sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è
illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura
non esiste. Noi, - non so se questo possa farle piacere - noi abbiamo sempre vissuto e
sempre vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le
manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo
maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce
lo facesse vedere almeno com'esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e
ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in
un'altra forma d'esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate,
signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le
ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura
che c'ispirò!
Oh perché dunque il signor Anselmo Paleari, pur dicendo, e con ragione, tanto male del
lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, ne voleva accendere ora un altro col vetro
rosso, là in camera mia, pe' suoi esperimenti spiritici? Non era già di troppo quell'uno?
Volli domandarglielo.
- Correttivo! - mi rispose. - Un lanternino contro l'altro! Del resto a un certo punto questo si
spegne, sa!
- E le sembra che sia il miglior mezzo, codesto, per vedere qualche cosa? - m'arrischiai a
osservare.
- Ma la così detta luce, scusi, - ribatté pronto il signor Anselmo, - può servire per farci vedere
ingannevolmente qua, nella così detta vita; per farci vedere di là da questa, non serve
affatto, creda, anzi nuoce. Sono stupide pretensioni di certi scienziati di cuor meschino
e di più meschino intelletto, i quali vogliono credere per loro comodità che con questi esperimenti
si faccia oltraggio alla scienza o alla natura. Ma nossignore! Noi vogliamo scoprire
altre leggi, altre forse, altra vita nella natura, sempre nella natura, perbacco! oltre la scarsissima
esperienza normale; noi vogliamo sforzare l'angusta comprensione, che i nostri
sensi limitati ce ne dànno abitualmente. Ora, scusi, non pretendono gli scienziati per i primi
ambiente e condizioni adatti per la buona riuscita dei loro esperimenti? Si può fare a
meno della camera oscura nella fotografia? E dunque? Ci sono poi tanti mezzi di controllo!
Il signor Anselmo però, come potei vedere poche sere dopo, non ne usava alcuno. Ma erano
esperimenti in famiglia! Poteva mai sospettare che la signorina Caporale e Papiano si
prendessero il gusto d'ingannarlo? e perché, poi? che gusto? Egli era più che convinto e
non aveva affatto bisogno di quegli esperimenti per rafforzar la sua fede. Come uomo
dabbenissimo che era, non arrivava a supporre che potessero ingannarlo per altro fine.
Quanto alla meschinità affliggente e puerile dei resultati, la teosofia s'incaricava di dargliene
una spiegazione plausibilissima. Gli esseri superiori del Piano Mentale, o di più sù,
non potevano discendere a comunicare con noi per mezzo di un medium bisognava dunque
contentarsi delle manifestazioni grossolane di anime di trapassati inferiori, del Piano
Astrale, cioè del più prossimo al nostro: ecco.
E chi poteva dirgli di no?*
Io sapevo che Adriana s'era sempre ricusata d'assistere a questi esperimenti. Dacché me
ne stavo tappato in camera, al bujo, ella non era entrata se non raramente, e non mai sola,
a domandarmi come stessi. Ogni volta quella domanda pareva ed era infatti rivolta per
pura convenienza. Lo sapeva, lo sapeva bene come stavo! Mi pareva finanche di sentire
un certo sapor d'ironia birichina nella voce di lei, perché già ella ignorava per qual ragione
mi fossi così d'un tratto risoluto ad assoggettarmi all'operazione, e doveva perciò ritenere
ch'io soffrissi per vanità, per farmi cioè più bello o meno brutto, con l'occhio accomodato
secondo il consiglio della Caporale.
- Sto benone, signorina! - le rispondevo. - Non vedo niente...
- Eh, ma vedrà, vedrà meglio poi, - diceva allora Papiano.
Approfittandomi del bujo, alzavo un pugno, come per scaraventarglielo in faccia. Ma lo faceva
apposta certamente, perch'io perdessi quel po' di pazienza che mi restava ancora.
Non era possibile ch'egli non s'accorgesse del fastidio che mi recava: glielo dimostravo in
tutti i modi, sbadigliando, sbuffando; eppure, eccolo là: seguitava a entrare in camera mia
quasi ogni sera (ah lui, sì) e vi si tratteneva per ore intere, chiacchierando senza fine. In
quel bujo, la sua voce mi toglieva quasi il respiro, mi faceva torcere su la sedia, come su
un aculeo, artigliar le dita: avrei voluto strozzarlo in certi momenti. Lo indovinava? lo sentiva?
Proprio in quei momenti, ecco, la sua voce diventava più molle, quasi carezzevole.
Noi abbiamo bisogno d'incolpar sempre qualcuno dei nostri danni e delle nostre sciagure.
Papiano, in fondo, faceva tutto per spingermi ad andar via da quella casa; e di questo, se
la voce della ragione avesse potuto parlare in me, in quei giorni, io avrei dovuto ringraziarlo
con tutto il cuore. Ma come potevo ascoltarla, questa benedetta voce della ragione, se
essa mi parlava appunto per la bocca di lui, di Papiano, il quale per me aveva torto, torto
evidente, torto sfacciato? Non voleva egli mandarmi via, infatti, per frodare il Paleari e rovinare
Adriana? Questo soltanto io potevo allora comprendere da tutti que' suoi discorsi.
Oh possibile che la voce della ragione dovesse proprio scegliere la bocca di Papiano per
farsi udire da me? Ma forse ero io che, per trovarmi una scusa, la mettevo in bocca a lui,
perché mi paresse ingiusta, io che mi sentivo già preso nei lacci della vita e smaniavo, non
per il bujo propriamente, né per il fastidio che Papiano, parlando, mi cagionava.
Di che mi parlava? Di Pepita Pantogada, sera per sera.
Benché io vivessi modestissimamente, s'era fitto in capo che fossi molto ricco. E ora, per
deviare il mio pensiero da Adriana, forse vagheggiava l'idea di farmi innamorare di quella
nipote del marchese Giglio d'Auletta, e me la descriveva come una fanciulla saggia e fiera,
piena d'ingegno e di volontà, recisa nei modi, franca e vivace; bella, poi; uh, tanto bella!
bruna, esile e formosa a un tempo; tutta fuoco, con un pajo d'occhi fulminanti e una bocca
che strappava i baci. Non diceva nulla della dote: - Vistosissima! - tutta la sostanza del
marchese d'Auletta, nientemeno. Il quale, senza dubbio, sarebbe stato felicissimo di darle
presto marito, non solo per liberarsi del Pantogada che lo vessava, ma anche perché non
andavano tanto d'accordo nonno e nipote: il marchese era debole di carattere, tutto chiuso
in quel suo mondo morto; Pepita invece, forte, vibrante di vita.
Non comprendeva che più egli elogiava questa Pepita, più cresceva in me l'antipatia per
lei, prima ancora di conoscerla? La avrei conosciuta - diceva - fra qualche sera, perché egli
la avrebbe indotta a intervenire alle prossime sedute spiritiche. Anche il marchese Giglio
d'Auletta avrei conosciuto, che lo desiderava tanto per tutto ciò che egli, Papiano, gli
aveva detto di me. Ma il marchese non usciva più di casa, e poi non avrebbe mai preso
parte a una seduta spiritica, per le sue idee religiose.
- E come? - domandai. - Lui, no; e intanto permette che vi prenda parte la nipote?
- Ma perché sa in quali mani l'affida! - esclamò alteramente Papiano.
Non volli saper altro. Perché Adriana si ricusava d'assistere a quegli esperimenti? Pe' suoi
scrupoli religiosi. Ora, se la nipote del marchese Giglio avrebbe preso parte a quelle sedute,
col consenso del nonno clericale, non avrebbe potuto anch'ella parteciparvi? Forte di
questo argomento, io cercai di persuaderla, la vigilia della prima seduta.
Era entrata in camera mia col padre, il quale udita la mia proposta:
- Ma siamo sempre lì, signor Meis! - sospirò. - La religione, di fronte a questo problema,
drizza orecchie d'asino e adombra, come la scienza. Eppure i nostri esperimenti, l'ho già
detto e spiegato tante volte a mia figlia, non sono affatto contrarii né all'una né all'altra.
Anzi, per la religione segnatamente sono una prova delle verità che essa sostiene.
- E se io avessi paura? - obbiettò Adriana.
- Di che? - ribatté il padre. - Della prova?
- O del bujo? - aggiunsi io. - Siamo tutti qua, con lei, signorina! Vorrà mancare lei sola?
- Ma io... - rispose, impacciata, Adriana, - io non ci credo, ecco... non posso crederci, e...
che so!
Non poté aggiunger altro. Dal tono della voce, dall'imbarazzo, io però compresi che non
soltanto la religione vietava ad Adriana d'assistere a quegli esperimenti. La paura messa
avanti da lei per iscusa poteva avere altre cause, che il signor Anselmo non sospettava. O
le doleva forse d'assistere allo spettacolo miserevole del padre puerilmente ingannato da
Papiano e dalla signorina Caporale?
Non ebbi animo d'insistere più oltre.
Ma ella, come se mi avesse letto in cuore il dispiacere che il suo rifiuto mi cagionava, si lasciò
sfuggire nel bujo un: - Del resto... - ch'io colsi subito a volo:
- Ah brava! L'avremo dunque con noi?
- Per domani sera soltanto, - concesse ella, sorridendo.
Il giorno appresso, sul tardi, Papiano venne a preparare la camera: v'introdusse un tavolino
rettangolare, d'abete, senza cassetto, senza vernice, dozzinale; sgombrò un angolo
della stanza; vi appese a una funicella un lenzuolo; poi recò una chitarra, un collaretto da
cane con molti sonaglioli, e altri oggetti. Questi preparativi furono fatti al lume del famoso
lanternino dal vetro rosso. Preparando, non smise - s'intende! - un solo istante di parlare.
- Il lenzuolo serve, sa! serve... non saprei, da... da accumulatore, diciamo, di questa forza
misteriosa: lei lo vedrà agitarsi, signor Meis, gonfiarsi come una vela, rischiararsi a volte
d'un lume strano, quasi direi siderale. Sissignore! Non siamo ancora riusciti a ottenere
materializzazioni, ma luci sì: ne vedrà, se la signorina Silvia questa sera si troverà in
buone disposizioni. Comunica con lo spirito di Un suo antico compagno d'Accademia, morto,
Dio ne scampi, di tisi, a diciott'anni. Era di... non so, di Basilea, mi pare: ma stabilito a
Roma da un pezzo, con la famiglia. Un genio, sa, per la musica: reciso dalla morte crudele
prima che avesse potuto dare i suoi frutti. Così almeno dice la signorina Caporale. Anche
prima che ella sapesse d'aver questa facoltà medianica, comunicava con lo spirito di Max.
Sissignore: si chiamava così, Max... aspetti, Max Oliz, se non sbaglio. Sissignore! Invasata
da questo spirito, improvvisava sul pianoforte, fino a cader per terra, svenuta, in certi momenti.
Una sera si raccolse perfino gente, giù in istrada, che poi la applaudì...
- E la signorina Caporale ne ebbe quasi paura, - aggiunsi io, placidamente.
- Ah, lo sa? - fece Papiano, restando.
- Me l'ha detto lei stessa. Sicché dunque applaudirono la musica di Max sonata con le mani
della signorina Caporale?
- Già, già! Peccato che non abbiamo in casa un pianoforte. Dobbiamo contentarci di qualche
motivetto, di qualche spunto, accennato su la chitarra. Max s'arrabbia, sa! fino a
strappar le corde, certe volte... Ma sentirà stasera. Mi pare che sia tutto in ordine, ormai.
- E dica un po', signor Terenzio. Per curiosità, - volli domandargli, prima che andasse via, -
lei ci crede? ci crede proprio?
- Ecco, - mi rispose subito, come se avesse preveduto la domanda. - Per dire la verità,
non riesco a vederci chiaro.
- Eh sfido!
- Ah, ma non perché gli esperimenti si facciano al bujo, badiamo! I fenomeni, le manifestazioni
sono reali, non c'è che dire: innegabili. Noi non possiamo mica diffidare di noi stessi...
- E perché no? Anzi!
- Come? Non capisco!
- C'inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche cosa...
- Ma a me, no, sa: non piace! - protestò Papiano. - Mio suocero, che è molto addentro in
questi studii, ci crede. Io, fra l'altro, veda, non ho neanche il tempo di pensarci... se pure
ne avessi voglia. Ho tanto da fare, tanto, con quei maledetti Borboni del marchese che mi
tengono lì a chiodo! Perdo qui qualche serata. Dal canto mio, son d'avviso, che noi, finché
per grazia di Dio siamo vivi, non potremo saper nulla della morte; e dunque, non le pare
inutile pensarci? Ingegnamoci di vivere alla meglio, piuttosto, santo Dio! Ecco come io la
penso, signor Meis. A rivederla, eh? Ora scappo a prendere in via dei Pontefici la signorina
Pantogada.
Ritornò dopo circa mezz'ora, molto contrariato: insieme con la Pantogada e la governante
era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di
casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l'italiano; non ci fu
verso però di fargli pronunciare l'esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell'atto di
proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.
- Adriano Mei, - diceva, come se tutt'a un tratto fossimo diventati amiconi.
- Adriano Tui, - mi veniva quasi di rispondergli.
Entrarono le donne: Pepita, la governante, la signorina Caporale, Adriana.
- Anche tu? Che novità? - le disse Papiano con mal garbo.
Non se l'aspettava quest'altro tiro. Io intanto, dal modo con cui era stato accolto il Bernaldez,
avevo capito che il marchese Giglio non doveva saper nulla dell'intervento di lui alla
seduta, e che doveva esserci sotto qualche intrighetto con la Pepita.
Ma il gran Terenzio non rinunziò al suo disegno. Disponendo intorno al tavolino la catena
medianica, si fece sedere accanto Adriana e pose accanto a me la Pantogada.
Non ero contento? No. E Pepita neppure. Parlando tal quale come il padre, ella si ribellò
subito:
- Gracie tanto, asì no puede ser! Ió voglio estar entre el segnor Paleari e la mia governante,
caro segnor Terenzio!
La semioscurità rossastra permetteva appena di discernere i contorni; cosicché non potei
vedere fino a qual punto rispondesse al vero il ritratto che della signorina Pantogada m'aveva
abbozzato Papiano; il tratto però, la voce e quella sùbita ribellione s'accordavano
perfettamente all'idea che m'ero fatta di lei, dopo quella descrizione.
Certo, rifiutando cosi sdegnosamente il posto che Papiano le aveva assegnato accanto a
me, la signorina Pantogada m'offendeva; ma io non solo non me n'ebbi a male, ma anzi
me ne rallegrai.
- Giustissimo! - esclamò Papiano. - E allora, si può far così: accanto al signor Meis segga
la signora Candida; poi prenda posto lei, signorina. Mio suocero rimanga dov'è: e noi altri
tre pure così, come stiamo. Va bene?
E no! non andava bene neanche così: né per me, né per la signorina Caporale, né per Adriana
e né - come si vide poco dopo - per la Pepita, la quale stette molto meglio in una
nuova catena disposta proprio dal genialissimo spirito di Max.
Per il momento, io mi vidi accanto quasi un fantasima di donna, con una specie di collinetta
in capo (era cappello? era cuffia? parrucca? che diavolo era?). Di sotto quel carico enorme
uscivan di tratto in tratto certi sospiri terminati da un breve gemito. Nessuno aveva
pensato a presentarmi a quella signora Candida : ora, per far la catena, dovevamo tenerci
per mano; e lei sospirava. Non le pareva ben fatto, ecco. Dio, che mano fredda!
Con l'altra mano tenevo la sinistra della signorina Caporale seduta a capo del tavolino,
con le spalle contro il lenzuolo appeso all'angolo; Papiano le teneva la destra. Accanto ad
Adriana, dall'altra parte, sedeva il pittore; il signor Anselmo stava all'altro capo del tavolino,
dirimpetto alla Caporale.
Papiano disse:
- Bisognerebbe spiegare innanzi tutto al signor Meis e alla signorina Pantogada il linguaggio...
come si chiama?
- Tiptologico, - suggerì il signor Anselmo.
- Prego, anche a me, - si rinzelò la signora Candida, agitandosi su la seggiola.
- Giustissimo! Anche alla signora Candida, si sa!
- Ecco, - prese a spiegare il signor Anselmo. - Due colpi vogliono dir sì...
- Colpi? - interruppe Pepita. - Che colpi?
- Colpi, - rispose Papiano, - o battuti sul tavolino o su le seggiole o altrove o anche fatti
percepire per via di toccamenti.
- Ah no-no-no-no-nó!! - esclamò allora quella a precipizio, balzando in piedi. - Ió non ne
amo, tocamenti. De chi?
- Ma dello spirito di Max, signorina, - le spiegò Papiano. - Gliel'ho accennato, venendo:
non fanno mica male, si rassicuri.
- Tittologichi, - aggiunse con aria di commiserazione, da donna superiore, la signora Candida.
- E dunque, - riprese il signor Anselmo, - due colpi, sì; tre colpi, no; quattro, bujo cinque,
parlate; sei, luce. Basterà così. E ora concentriamoci, signori miei.
Si fece silenzio. Ci concentrammo.
XIII
LA PETITE LANTERNE
Quarante jours dans l’obscurité !
Réussie, réussie admirablement l’opération ! Seulement mon œil resterait peut-être un tout petit peu plus gros que l’autre. Patience ! Et en attendant, oui, dans l’obscurité – quarante jours – dans ma chambre.
J’eus la preuve que l’homme, quand il souffre, se fait une idée particulière du bien et du mal, c’est-à-dire du bien que les autres devraient lui faire et auquel il prétend, comme si ses souffrances lui donnaient droit à une compensation, et du mal qu’il peut faire aux autres, comme si encore il y était autorisé par ses souffrances. Et si les autres ne lui font pas du bien comme par devoir, il les accuse, et, de tout le mal qu’il fait il s’excuse facilement.
Après quelques jours de cette prison aveugle, le désir, le besoin d’être réconforté en quelque manière s’accrut jusqu’à l’exaspération. Je savais bien que j’étais dans une maison étrangère et que, par conséquent, je devais plutôt remercier mes hôtes des soins très délicats dont ils m’avaient comblé. Mais ces soins ne me suffisaient plus, et même m’irritaient, comme si on me les avait donnés par dépit. Certainement ! Car je devinais de qui ils me venaient. Adrienne me prouvait ainsi qu’elle était, par la pensée, presque tout le jour avec moi, dans ma chambre, et merci de la consolation ! À quoi me servait-elle, puisque moi, pendant ce temps, par la mienne, je la suivais çà et là par la maison, toute la journée, fiévreusement ? Elle seule pouvait me réconforter : elle le devait ; elle plus que les autres était en mesure de comprendre comment et combien devait me peser l’ennui et me ronger le désir de la voir ou de la sentir au moins près de moi.
L’impatience et l’ennui étaient encore accrus en moi par la rage que m’avait causée la nouvelle du départ subit de Rome de Pantogada. Me serais-je terré là pendant quarante jours dans l’obscurité, si j’avais su qu’il devait s’en aller si vite ?
Pour me consoler, M. Anselme Paleari voulut me démontrer par un long raisonnement que l’obscurité était imaginaire.
– Imaginaire ? Ceci ? lui criai-je.
– Non ! Un peu de patience ; je m’explique.
Et il me développa (peut-être aussi pour que je fusse préparé aux expériences de spiritisme qu’on allait faire cette fois dans ma chambre, pour me procurer une distraction), il me développa, dis-je une conception à lui, très spécieuse, qu’on pourrait appeler lanternosophie.
De temps en temps, le brave homme s’interrompait pour me demander :
– Vous dormez, monsieur Meis ?
Et j’étais tenté de lui répondre :
– Oui, merci ! Je dors, monsieur Anselme.
Mais comme l’intention au fond était bonne, à savoir de me tenir compagnie, je lui répondais que je m’amusais au contraire beaucoup et que je le priais de .
Le sentiment de la vie pour M. Anselme était proprement comme une lanterne que chacun de nous porte en soi, allumée ; une lanterne qui nous fait nous voir égarés sur la terre et nous fait voir le mal et le bien ; une lanterne qui projette tout autour de nous un cercle plus ou moins large de lumière, au-delà duquel est l’ombre noire, l’ombre pleine d’épouvante qui n’existerait pas si la lanterne n’était pas allumée, mais que nous ne sommes que trop forcés de croire vraie, tant que celle-ci maintient en nous sa flamme vive. Cette flamme soufflée à la fin, rentrerons-nous réellement dans cette ombre factice ? rentrerons-nous dans la nuit éternelle, après le jour fameux de notre illusion, ou ne resterons-nous pas plutôt à la merci de l’Être, qui aura brisé les vaines formes de notre raison ?
– Vous dormez, monsieur Meis ?
– Continuez ! continuez ! monsieur Anselme ; je ne dors pas. Il me semble presque la voir, votre lanterne.
Mais pourquoi donc M. Anselme Paleari, tout en disant tant de mal de la petite lanterne que chacun de nous porte allumée en soi, voulait-il en allumer maintenant une autre, à vitre rouge, ici dans ma chambre, pour ses expériences de spiritisme ? N’était-ce pas déjà trop d’une ? Je le lui demandai.
– Correctif ! me répondit-il. Une lanterne contre l’autre ! Du reste, à un moment, celle-ci s’éteint, vous savez !
– Et il vous semble que ce soit là le meilleur moyen pour voir quelque chose ? me risquai-je à observer.
– Mais la prétendue lumière, excusez, repartit promptement M. Anselme, peut servir à nous faire voir trompeusement ici, dans la prétendue vie. Pour nous faire voir au-delà de celle-ci, elle ne sert à rien, croyez-le, et bien plutôt nous nuit. Elles sont stupides, les prétentions de certains savants à cœur mesquin et à intelligence plus mesquine encore, qui veulent croire pour leur commodité que, par ces expériences, on fait outrage à la science ou à la nature. Mais non, monsieur ! Nous voulons découvrir d’autres lois, d’autres forces, une autre vie de la nature, toujours dans la nature, par Bacchus ! Au-delà de l’indigente expérience normale, nous voulons forcer l’étroite compréhension que nos sens limités nous en donnent habituellement. À présent, excusez, les savants ne prétendent-ils pas tous, les premiers, à un milieu et à des conditions appropriés pour la bonne réussite de leurs expériences ? Peut-on se passer de chambre noire pour la photographie ? Eh donc ? Et puis il y a tant de moyens de contrôle !
M. Anselme, cependant, comme je pus le voir après quelques soirs, n’usait d’aucun. Mais c’étaient des expériences en famille ! Pouvait-il jamais soupçonner que mademoiselle Caporale et Papiano prenaient plaisir à le tromper ? Et puis, pourquoi ? Quel plaisir ? Il était plus que convaincu et n’avait nullement besoin de ces expériences pour raffermir sa foi. En excellent homme qu’il était, il n’arrivait pas à supposer qu’ils pussent le tromper pour une autre fin ! Quant à la pauvreté affligeante et puérile des résultats, la théosophie se chargeait de lui en donner une explication très plausible. Les êtres supérieurs du Plan mental, ou de plus haut, ne pouvaient descendre communiquer avec nous par l’intermédiaire d’un médium ; il fallait donc se contenter des manifestations grossières d’âmes de trépassés inférieurs, du Plan astral, c’est-à-dire du plus proche de nous : voilà ! Et qui pouvait lui dire que non !2
*
* *
Je savais qu’Adrienne avait toujours refusé d’assister à ces expériences. Depuis que j’étais renfermé dans ma chambre, dans l’obscurité, elle n’était entrée que rarement, et jamais seule, pour me demander comment j’allais. Chaque fois, cette demande paraissait et était, en effet, adressée par pure convenance. Elle savait, elle savait aussi bien comment j’allais ! Il me semblait même reconnaître comme une pointe d’ironie dans sa voix, car, naturellement, elle ignorait pour quelle raison je m’étais ainsi tout à coup résolu à me soumettre à l’opération. Elle devait par conséquent supposer que je souffrais par vanité, pour me rendre plus beau ou moins laid, avec mon œil rajusté suivant le conseil de la Caporale.
– Je vais très bien, mademoiselle ! lui répondais-je. Je ne vois rien.
– Eh ! mais vous verrez, vous verrez mieux après, disait alors Papiano.
Profitant de l’obscurité, je levais un poing, comme pour le lui abattre sur le visage. Il le faisait exprès certainement, pour que je perdisse le peu de patience qui me restait encore. Il n’était pas possible qu’il ne s’aperçût pas de l’ennui qu’il me causait : je le lui donnais à entendre de toutes les façons, en bâillant, en soufflant, et pourtant, il continuait à entrer dans ma chambre presque tous les soirs et y restait des heures entières, bavardant sans fin. Dans ces ténèbres, sa voix me coupait presque la respiration, me faisait me tordre sur la chaise, comme sur un chevalet de torture, crisper mes doigts : j’aurais voulu l’étrangler à de certains moments. Le devinait-il ? Le sentait-il ? Juste à ces moments-là, sa voix devenait plus molle, plus caressante.
Nous avons besoin de rendre toujours quelqu’un responsable de nos peines et de nos malheurs. Papiano, au fond, faisait tout pour me pousser à partir de cette maison, et si la voix de la raison avait pu parler en moi, ces jours-là j’aurais dû l’en remercier de tout cœur. Mais comment pouvais-je l’écouter, cette bienheureuse voix de la raison, quand elle me parlait justement par la bouche de Papiano, lequel, pour moi, avait tort, évidemment tort, impudemment tort ? Ne voulait-il pas me chasser, en effet, pour duper Paleari et perdre Adrienne ? C’est tout ce que je pouvais comprendre alors à tous ses discours. Oh ! comment la voix de la raison avait-elle pu choisir juste la bouche de Papiano pour se faire entendre de moi ? Mais peut-être était-ce moi qui, pour me trouver une excuse, la mettais dans sa bouche, pour qu’elle me parût odieuse, moi qui me sentais déjà repris dans les lacets de la vie.
Bien que je vécusse très modestement, Papiano s’était fourré dans la tête que j’étais très riche. Et, maintenant, pour détourner ma pensée d’Adrienne, peut-être caressait-il l’idée de me faire tomber amoureux de la petite-fille du marquis Giglio, et il me la décrivait comme une jeune fille sage et fière, pleine de talent et de volonté, décidée dans ses manières, franche et vive. D’ailleurs belle : oh ! bien belle ! Brune, mince et de formes admirables en même temps : toute de feu, avec une paire d’yeux fulminants. Il ne disait rien de la dot : superbe ! toute la fortune du marquis d’Auletta, ni plus ni moins. Celui-ci, sans doute, serait très heureux de la marier bientôt, non seulement pour se délivrer de Pantogada, qui le tourmentait, mais aussi parce que l’accord ne régnait pas toujours entre le grand-père et la petite-fille : le marquis était faible de caractère, tout renfermé dans son monde mort ; Pépita, au contraire, forte, vibrante de vie.
Ne comprenait-il pas que, plus il faisait l’éloge de Pépita, plus croissait en moi l’antipathie pour elle, avant même de la connaître ?
Je ferais sa connaissance, disait-il, un de ces soirs, car il la déciderait à assister aux prochaines séances de spiritisme. Je connaîtrais aussi le marquis Giglio d’Auletta, qui le désirait fort, après tout ce que Papiano lui avait dit de moi. Mais le marquis ne sortait presque plus de chez lui, et puis, jamais il ne prendrait part à une séance de spiritisme, à cause de ses idées religieuses…
– Et comment, demandai-je, lui s’abstenant, le permet-il à sa petite-fille ?
– C’est qu’il sait en quelles mains il la remet ! s’écria Papiano d’une voix altière.
Je ne voulus pas en savoir davantage. Pourquoi Adrienne refusait-elle d’assister à ces expériences ? Par scrupule religieux. Or, si la petite-fille du marquis Giglio prenait part à ces séances, avec le consentement de son grand-père clérical, ne pourrait-elle y participer, elle aussi ? Fort de cet argument, je cherchai à la persuader, la veille de la première séance.
Elle était entrée dans ma chambre avec son père, qui, ayant entendu ma proposition, soupira :
– Mais nous en sommes toujours là, monsieur Meis. La religion, en face de ce problème, dresse des oreilles d’âne et se cabre, comme la science. Et pourtant, nos expériences, je l’ai déjà dit et expliqué bien des fois à ma fille, ne sont nullement contraires ni à l’une ni à l’autre. Et même, pour la religion en particulier, elles sont une preuve des vérités qu’elle soutient.
– Et si j’avais peur ? objecta Adrienne.
– De quoi ? lui rétorqua son père. De l’épreuve ?
– Ou des ténèbres ? ajoutai-je. Nous sommes tous là avec vous, mademoiselle ! Voudrez-vous manquer seule ?
– Mais moi… répondit, embarrassée, Adrienne, je n’y crois pas, voilà…
Elle ne put en ajouter davantage. À son embarras, je compris que ce n’était pas seulement la religion qui empêchait Adrienne d’assister à ces expériences. La peur qu’elle mettait en avant pouvait avoir une autre cause que M. Anselme ne soupçonnait pas. Ou peut-être lui répugnait-il d’assister au spectacle de son père puérilement trompé par Papiano et mademoiselle Caporale ?
Je n’eus pas le courage d’insister.
Mais elle, comme si elle avait lu dans mon cœur le déplaisir que son refus me causait, laissa échapper dans l’obscurité un : Du reste… que je recueillis au vol.
– Ah ! bravo ! Nous vous aurons donc avec nous ?
– Pour demain soir seulement, accorda-t-elle en souriant.
Le lendemain, sur le tard, Papiano vint préparer la chambre ; il y introduisit une table rectangulaire, en sapin, sans tiroir, sans vernis, commune ; il débarrassa un coin de la pièce, y suspendit à une ficelle un drap, puis apporta une guitare, un collier de chien avec beaucoup de sonnettes et d’autres objets. Ces préparatifs furent faits à la lumière de la fameuse petite lanterne à verre rouge. Tout en préparant, il ne cessa pas un seul instant de parler.
– Le drap sert d’accumulateur de cette force mystérieuse : vous le verrez s’agiter, monsieur Meis, s’éclairer parfois d’une lumière étrange, pour ainsi dire sidérale. Oui, monsieur ! Nous n’avons pas réussi encore à obtenir des matérialisations, mais des lumières, oui, vous en verrez, si mademoiselle Silvia se trouve ce soir en bonnes dispositions. Elle communique avec l’esprit d’un de ses anciens camarades d’Académie, mort, Dieu nous en préserve ! de phtisie, à dix-huit ans. C’est du moins ce que dit mademoiselle Caporale. Avant même de savoir qu’elle avait cette faculté médianique, elle communiquait avec l’esprit de Max. Oui, monsieur ! C’est ainsi qu’il s’appelait : Max… attendez… Max Oliz, si je ne me trompe. Possédée par cet esprit, elle improvisait sur le piano, jusqu’à tomber par terre, évanouie, à certains moments. Un soir même, des gens se rassemblèrent, en bas, dans la rue, qui ensuite l’applaudirent.
– Et mademoiselle Caporale en eut presque peur, ajoutai-je tranquillement.
– Ah ! vous le savez ? fit Papiano interdit.
– Elle me l’a dit elle-même. De sorte, donc, qu’ils applaudirent la musique de Max, exécutée par les mains de mademoiselle Caporale ?
– Sans doute ! C’est dommage que nous n’ayons pas de piano à la maison. Nous devons nous contenter de quelque petit motif, de quelque refrain, esquissé sur la guitare. Max se met en colère, vous savez ! jusqu’à briser les cordes, certaines fois… Mais vous entendrez ce soir… Il me semble que tout est en ordre, maintenant.
– Et, dites-moi un peu, monsieur Térence. Par curiosité, voulus-je lui demander, avant qu’il s’en allât, et vous, y croyez-vous ? Y croyez-vous vraiment ?
– Voilà ! me répondit-il tout de suite, comme s’il eût prévu la question… Pour dire la vérité, je ne réussis pas à y voir clair. Non pas parce que les expériences se font dans les ténèbres, faites attention ! Les phénomènes, les manifestations sont réels, il n’y a pas à dire : indéniables. Nous ne pouvons point nous défier de nous-mêmes…
– Et pourquoi pas ? Au contraire ! fis-je.
– Comment ? Je ne comprends pas !
– Nous nous abusons si facilement ! Surtout quand il nous plaît de croire en quelque chose.
– Mais à moi, non, vous savez : cela ne me plaît pas ! protesta Papiano. Mon beau-père, qui est très enfoncé dans ses études, y croit. Moi, voyez-vous, je n’ai même pas le temps de penser… si même j’en avais l’envie. J’ai tant à faire ! Je perds ainsi quelques soirées, pour faire plaisir à mon beau-père. De mon côté, je suis d’avis que, tant que nous serons en vie, nous ne pourrons rien savoir de la mort. Donc, ne vous semble-t-il pas inutile d’y penser ? Ingénions-nous à vivre le mieux possible plutôt ! Je me sauve maintenant prendre, rue des Pontifes, mademoiselle Pantogada.
Il revint environ une demi-heure après, très contrarié. Avec mademoiselle Pantogada et la gouvernante était venu un certain peintre espagnol, qui me fut présenté, les dents serrées, comme ami de la maison Giglio. Il s’appelait Manuel Bernaldez et parlait correctement l’italien ; il n’y eut pas moyen pourtant de lui faire prononcer l’s de mon nom : on eût dit qu’à chaque fois qu’il était pour le prononcer, il avait peur de s’y blesser la langue.
– Adrien Mei, disait-il, comme si tout à coup nous étions devenus une paire d’amis.
Entrèrent ces dames : Pépita, la gouvernante, mademoiselle Caporale, Adrienne.
– Toi aussi ? Quelle nouveauté ! lui dit Papiano de mauvaise grâce.
Il ne s’y attendait pas, à celle-là ! Cependant, à la façon dont avait été accueilli le Bernaldez, j’avais compris que le marquis Giglio ne devait rien savoir de sa présence à la séance et qu’il devait y avoir là-dessous quelque petite intrigue avec Pépita.
Mais le grand Térence ne renonça pas à son plan. Disposant autour de la table la chaîne médianique, il fit asseoir à côté de lui Adrienne et mit à côté de moi la Pantogada.
N’étais-je pas content ? Non. Et Pépita non plus. Parlant à peu près comme son père, elle se rebella aussitôt :
– Millé graces, cé ne puede pas aller ainsi ! Yo veux estar entre la señor Paleari et ma gobernante, caro señor Terence !
La demi-obscurité rougeâtre permettait à peine de discerner les formes ; de sorte que je ne pus voir jusqu’à quel point répondait à la réalité le portrait que Papiano m’avait ébauché de mademoiselle Pantogada. Ses manières, pourtant, sa voix et cette rébellion subite, s’accordaient parfaitement avec l’idée que je m’étais faite d’elle d’après cette description.
Certes, en refusant si dédaigneusement la place que Papiano lui avait assignée à côté de moi, mademoiselle Pantogada m’offensait. Pourtant, non seulement je ne le pris pas mal, mais même je m’en réjouis.
– Fort juste ! s’écria Papiano. Et alors, on peut faire ainsi : à côté de monsieur Meis, s’assoira madame Candide ; puis, prenez place ici, mademoiselle. Mon beau-père restera où il est, et nous autres, tous les trois aussi, comme nous sommes. Cela va ?
Eh non ! cela n’allait pas encore : ni pour moi, ni pour mademoiselle Caporale, ni pour Adrienne et ni – comme on le vit bientôt – pour la Pépita, qui se trouva beaucoup mieux dans une nouvelle chaîne disposée justement par le génialissime esprit de Max.
Pour le moment, je vis à côté de moi comme un fantôme de femme, avec une espèce de petite colline sur la tête (était-ce un chapeau ? était-ce une coiffe ? une perruque ? que diable était-ce ?). De dessous cette énorme charge sortaient de temps en temps certains soupirs terminés par un gémissement bref. Personne n’avait pensé à me présenter à cette dame Candide ; à présent, pour faire la chaîne, nous devions nous tenir par la main, et elle soupirait. Cela ne lui paraissait pas bien fait, voilà ! Dieu, quelle main froide !
De l’autre main, je tenais la gauche de mademoiselle Caporale, assise au bout de la table, les épaules contre le drap suspendu au coin ; Papiano lui tenait la droite. À côté d’Adrienne, de l’autre côté, était assis le peintre ; M. Anselme était à l’autre bout de la table, vis-à-vis de la Caporale.
Papiano dit :
– Il faudrait avant tout expliquer à monsieur Meis et à mademoiselle Pantogada le langage… Comment s’appelle-t-il ?
– Typtologique, dit M. Anselme.
– S’il vous plaît, à moi aussi, se hasarda à dire madame Candide, en s’agitant sur sa chaise.
– C’est très juste ! Aussi à madame Candide, naturellement.
– Voici, commença à expliquer M. Anselme. Deux coups veulent dire oui…
– Des coups ? interrompit Pépita. Quels coups ?
– Des coups ! répondit Papiano, ou percussions sur la table ou sur les chaises, ou ailleurs, ou que l’on fait percevoir par voie d’attouchements.
– Ah ! no ! no ! no ! no ! no ! s’écria-t-elle alors précipitamment, bondissant sur ses pieds. Yo n’aimé pas cela les attouchements. Dé qui ?
– Mais de l’esprit de Max, mademoiselle ! lui expliqua Papiano. Je vous en ai parlé en venant : cela ne fait pas mal, rassurez-vous.
– Typtologiques, appuya d’un air de commisération, en femme supérieure, madame Candide.
– Donc, reprit M. Anselme, deux coups, oui ; trois coups, non ; quatre, ténèbres ; cinq, parlez ; six, lumière. Cela suffira ainsi. Et à présent, concentrons-nous, messieurs.