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XI: Di sera, guardando il fiume
Man mano che la familiarità cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori. - Libero! - dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà. Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; e con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio. - Libertà... libertà... - mormoravo. - Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove? Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. « Ecco la vita! » pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand'era sola, fingeva di non accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch'io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle? Ecco, ella ora, posato l'annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell'atteggiamento, e bisogno di solitudine. Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: « Perché, del resto, » mi domandavo, « dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento forse un'umiliazione per lei. Forse ella rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno d'affittar camere e d'avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le faccio forse paura, povera bambina, con quest'occhio e con questi occhiali... ». Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo i libri, restavo un po' perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori, da quella noja smaniosa. Andavo, secondo l'ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l'impressione di sogno, d'un sogno quasi lontano, ch'io m'ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M'accostai a una di esse, e allora quell'acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità. Ritornando per via Borgo Nuovo, m'imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po' il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio: - Allegro! Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi. - Allegro! - ripeté, accompagnando l'esortazione con un gesto della mano che significava: « Che fai? che pensi? non ti curar di nulla! ». E s'allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro. A quell'ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch'esso mi aveva suscitati, l'apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m'intronarono: restai non so per quanto tempo a con gli occhi quell'uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata. « Allegro! Si, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l'allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d'esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà... Torniamo a casa! » Ma quella era la notte degl'incontri. Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio. Accenno a quest'avventura, non per farmi bello d'un atto di coraggio, ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei mascalzoni, ma avevo anch'io un buon bastone ferrato. E vero che due di essi mi s'avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli strilli della donna, lo ono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte. Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e, piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di seta che portava sul seno, stracciato nella rissa. - No, no, grazie, - le dissi, schermendomi con ribrezzo. - Basta... Non è nulla! Va', va' subito... Non ti far vedere. E mi recai alla fontanella, che è sotto la rampa del ponte lì vicino, per bagnarmi la fronte. Ma, mentr'ero lì, ecco due guardie affannate, che vollero sapere che cosa fosse accaduto. Subito, la donna, che era di Napoli, prese a narrare il « guajo che aveva passato » con me, profondendo le frasi più affettuose e ammirative del suo repertorio dialettale al mio indirizzo. Ci volle del bello e del buono, per liberarmi di quei due zelanti questurini, che volevano assolutamente condurmi con loro, perché denunziassi il fatto. Bravo! Non ci sarebbe mancato altro! Aver da fare con la questura, adesso! comparire il giorno dopo nella cronaca dei giornali come un quasi eroe, io che me ne dovevo star zitto, in ombra, ignorato da tutti... Eroe, ecco, eroe non potevo più essere davvero. Se non a patto di morirci... Ma se ero già morto! - E vedovo lei, scusi, signor Meis? Questa domanda mi fu rivolta a bruciapelo, una sera, dalla signorina Caporale nel terrazzino, dove ella si trovava con Adriana e dove mi avevano invitato a passare un po' di tempo in loro compagnia. Restai male, lì per lì; risposi: - Io no; perché? - Perché lei col pollice si stropiccia sempre l'anulare, come chi voglia far girare un anello attorno al dito. Cosi... E vero, Adriana? Ma guarda un po' fin dove vanno a cacciarsi gli occhi delle donne, o meglio, di certe donne, poiché Adriana dichiarò di non essersene mai accorta. - Non ci avrai fatto attenzione! - esclamò la Caporale. Dovetti riconoscere che, per quanto neanche io vi avessi fatto mai attenzione, poteva darsi che avessi quel vezzo. - Ho tenuto difatti, - mi vidi costretto ad aggiungere, - per molto tempo, qui, un anellino, che poi ho dovuto far tagliare da un orefice, perché mi serrava troppo il dito e mi faceva male. - Povero anellino! - gemette allora, storcignandosi, la quarantenne, in vena quella sera di lezii infantili. - Tanto stretto le stava? Non voleva uscirle più dal dito? Sarà stato forse il ricordo d'un... - Silvia! - la interruppe la piccola Adriana, in tono di rimprovero. - Che male c'è? - riprese quella. - Volevo dire d'un primo amore... Sù, ci dica qualche cosa, signor Meis. Possibile, che lei non debba parlar mai? - Ecco, - dissi io, - pensavo alla conseguenza che lei ha tratto dal mio vezzo di stropicciarmi il dito. Conseguenza arbitraria, cara signorina. Perché i vedovi, ch'io mi sappia, non sogliono levarsi l'anellino di fede. Pesa, se mai, la moglie, non l'anellino, quando la moglie non c'è più. Anzi, come ai veterani piace fregiarsi delle loro medaglie, così al vedovo, credo, portar l'anellino. - Eh sì! - esclamò la Caporale. - Lei storna abilmente il discorso. - Come! Se voglio anzi approfondirlo! - Che approfondire! Non approfondisco mai nulla, io. Ho avuto questa impressione, e basta. - Che fossi vedovo? - Sissignore. Non pare anche a te, Adriana, che ne abbia l'aria, il signor Meis? Adriana si provò ad alzar gli occhi su me, ma li riabbassò subito, non sapendo - timida com'era - sostenere lo sguardo altrui; sorrise lievemente del suo solito sorriso dolce e mesto, e disse: - Che vuoi che sappia io dell'aria dei vedovi? Sei curiosa! Un pensiero, un'immagine dovette balenarle in quel punto alla mente; si turbò, e si volse a guardare il fiume sottostante. Certo quell'altra comprese, perché sospirò e si volse anche lei a guardare il fiume. Un quarto, invisibile, era venuto evidentemente a cacciarsi tra noi. Compresi alla fine anch'io, guardando la veste da camera di mezzo lutto di Adriana, e argomentai che Terenzio Papiano, il cognato che si trovava ancora a Napoli, non doveva aver l'aria del vedovo compunto, e che, per conseguenza, quest'aria, secondo la signorina Caporale, la avevo io. Confesso che provai gusto che quella conversazione finisse così male. Il dolore cagionato ad Adriana col ricordo della sorella morta e di Papiano vedovo, era infatti per la Caporale il castigo della sua indiscrezione. Se non che, volendo esser giusti, questa che pareva a me indiscrezione, non era in fondo naturale curiosità scusabilissima, in quanto che per forza doveva nascere da quella specie di silenzio strano che era attorno alla mia persona? E giacché la solitudine mi riusciva ormai insopportabile e non sapevo resistere alla tentazione d'accostarmi a gli altri, bisognava pure che alle domande di questi altri, i quali avevano bene il diritto di sapere con chi avessero da fare, io soddisfacessi, rassegnato, nel miglior modo possibile, cioè mentendo, inventando: non c'era via di mezzo! La colpa non era degli altri, era mia; adesso l'avrei aggravata, è vero, con la menzogna; ma se non volevo, se ci soffrivo, dovevo andar via, riprendere il mio vagabondaggio chiuso e solitario. Notavo che Adriana stessa, la quale non mi rivolgeva mai alcuna domanda men che discreta, stava pure tutta orecchi ad ascoltare ciò che rispondevo a quelle della Caporale, che, per dir la verità, andavano spesso un po' troppo oltre i limiti della curiosità naturale e scusabile. Una sera, per esempio, lì nel terrazzino, ove ora solitamente ci riunivamo quand'io tornavo da cena, mi domandò, ridendo e schermendosi da Adriana che le gridava eccitatissima: - No, Silvia, te lo proibisco! Non t'arrischiare! - mi domandò: - Scusi, signor Meis, Adriana vuol sapere perché lei non si fa crescere almeno i baffi... - Non è vero! - gridò Adriana. - Non ci creda, signor Meis! E stata lei, invece... Io... Scoppiò in lagrime, improvvisamente, la cara mammina. Subito la Caporale cercò di confortarla, dicendole: - Ma no, via! che c'entra! che c'è di male? Adriana la respinse con un gomito: - C'è di male che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parlavamo degli attori di teatro che sono tutti... così, e allora tu hai detto: « Come il signor Meis! Chi sa perché non si fa crescere almeno i baffi?... », e io ho ripetuto: « Già, chi sa perché... ». - Ebbene, - riprese la Caporale, - chi dice « Chi sa perché... », vuol dire che vuol saperlo! - Ma l'hai detto prima tu! - protestò Adriana, al colmo della stizza. - Posso rispondere? - domandai io per rimetter la calma. - No, scusi, signor Meis: buona sera! - disse Adriana, e si alzò per andar via Ma la Caporale la trattenne per un braccio: - Eh via, come sei sciocchina! Si fa per ridere... Il signor Adriano è tanto buono, che ci compatisce. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei... per che non si fa crescere almeno i baffi. Questa volta Adriana rise, con gli occhi ancora lagrimosi. - Perché c'è sotto un mistero, - risposi io allora alterando burlescamente la voce. - Sono congiurato! - Non ci crediamo! - esclamò la Caporale con lo stesso tono; ma poi soggiunse: - Però, senta: che è un sornione non si può mettere in dubbio. Che cosa è andato a fare, per esempio, oggi dopopranzo alla Posta? - Io alla Posta? - Sissignore. Lo nega? L'ho visto con gli occhi miei. Verso le quattro... Passavo per piazza San Silvestro... - Si sarà ingannata, signorina: non ero io. - Già, già, - fece la Caporale, incredula. - Corrispondenza segreta... Perché, è vero, Adriana?, non riceve mai lettere in casa questo signore. Me l'ha detto la donna di servizio, badiamo! Adriana s'agitò, seccata, su la seggiola. - Non le dia retta, - mi disse, rivolgendomi un rapido sguardo dolente e quasi carezzevole. - Né in casa, né ferme in posta! - risposi io. - E vero purtroppo! Nessuno mi scrive, signorina, per la semplice ragione che non ho più nessuno che mi possa scrivere. - Nemmeno un amico? Possibile? Nessuno? - Nessuno. Siamo io e l'ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso, quest'ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un'amicizia duratura. - Beato lei, - esclamò la Caporale, sospirando, - che ha potuto viaggiare tutta la vita! Ci parli almeno de' suoi viaggi, via, se non vuol parlarci d'altro. A poco a poco, superati gli scogli delle prime domande imbarazzanti, scansandone alcuni coi remi della menzogna, che mi servivan da leva e da puntello, aggrappandomi, quasi con tutte e due le mani, a quelli che mi stringevano più da presso, per girarli pian piano, prudentemente, la barchetta della mia finzione poté alla fine filare al largo e issar la vela della fantasia. E ora io, dopo un anno e più di forzato silenzio, provavo un gran piacere a parlare, a parlare, ogni sera, lì nel terrazzino, di quel che avevo veduto, delle osservazioni fatte, degli incidenti che mi erano occorsi qua e là. Meravigliavo io stesso d'avere accolto, viaggiando, tante impressioni, che il silenzio aveva quasi sepolte in me, e che ora, parlando, risuscitavano, mi balzavan vive dalle labbra. Quest'intima meraviglia coloriva straordinariamente la mia narrazione; dal piacere poi che le due donne, ascoltando, dimostravano di provarne, mi nasceva a mano a mano il rimpianto d'un bene che non avevo allora realmente goduto; e anche di questo rimpianto s'insaporava ora la mia narrazione. Dopo alcune sere, l'atteggiamento, il tratto della signorina Caporale erano radicalmente mutati a mio riguardo. Gli occhi dolenti le si appesantirono d'un languore così intenso, che richiamavan più che mai l'immagine del contrappeso di piombo interno, e più che mai buffo apparve il contrasto fra essi e la faccia da maschera carnevalesca. Non c'era dubbio: s'era innamorata di me la signorina Caporale! Dalla sorpresa ridicolissima che ne provai, m'accorsi intanto che io, in tutte quelle sere, non avevo parlato affatto per lei, ma per quell'altra che se n'era stata sempre taciturna ad ascoltare. Evidentemente però quest'altra aveva anche sentito ch'io parlavo per lei sola, giacché subito tra noi si stabilì come una tacita intesa di pigliarci a godere insieme il comico e impreveduto effetto de' miei discorsi sulle sensibilissime corde sentimentali della quarantenne maestra di pianoforte. Ma, con questa scoperta, nessun pensiero men che puro entrò in me per Adriana: quella sua candida bontà soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella prima confidenza quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene. Era un fuggevole sguardo, come il lampo d una grazia dolcissima; era un sorriso di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche benevolo richiamo ch'ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento del capo, se io eccedevo un po', per il nostro spasso segreto, nel dar filo di speranza all'aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine, ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta. - Lei non deve aver molto cuore, - mi disse una volta la Caporale, - se è vero ciò che dice e che io non credo, d'esser passato finora incolume per la vita. - Incolume? come? - Sì, intendo senza contrarre passioni... - Ah, mai, signorina, mai! - Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell'anellino che si fece tagliare da un orefice perché le serrava troppo il dito... - E mi faceva male! Non gliel'ho detto? Ma si! Era un ricordo del nonno, signorina. - Bugia! - Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m'aveva regalato quell'anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizi, e sa perché? perché io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m'ebbi l'anellino, comprato in una delle bacheche a Ponte Vecchio. Il nonno infatti riteneva fermamente, non so per quali sue ragioni, che quel quadro del Perugino dovesse invece essere attribuito a Raffaello. Ecco spiegato il mistero! Capirà che tra la mano d'un giovinetto di dodici anni e questa manaccia mia, ci corre. Vede? Ora son tutto così, come questa manaccia che non comporta anellini graziosi. Il cuore forse ce l'avrei; ma io sono anche giusto, signorina; mi guardo allo specchio, con questo bel pajo d'occhiali, che pure sono in parte pietosi, e mi sento cader le braccia: « Come puoi tu pretendere, mio caro Adriano, » dico a me stesso, « che qualche donna s'innamori di te? ». - Oh che idee! - esclamò la Caporale. - Ma lei crede d'esser giusto, dicendo così? E' ingiustissimo, invece, verso noi donne. Perché la donna, caro signor Meis, lo sappia, è più generosa dell'uomo, e non bada come questo alla bellezza esteriore soltanto. - Diciamo allora che la donna è anche più coraggiosa dell'uomo, signorina. Perché riconosco che, oltre alla generosità, ci vorrebbe una buona dose di coraggio per amar veramente un uomo come me. - Ma vada via! Già lei prova gusto a dirsi e anche a farsi più brutto che non sia. - Questo è vero. E sa perché? Per non ispirare compassione a nessuno. Se cercassi, veda, d'acconciarmi in qualche modo, farei dire: « Guarda un po' quel pover'uomo: si lusinga d'apparir meno brutto con quel pajo di baffi! ». Invece, così, no. Sono brutto? E là: brutto bene, di cuore, senza misericordia. Che ne dice? La signorina Caporale trasse un profondo sospiro. - Dico che ha torto, - poi rispose. - Se provasse invece a farsi crescere un po' la barba, per esempio, s'accorgerebbe subito di non essere quel mostro che lei dice. - E quest'occhio qui? - le domandai. - Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvoltura, - fece la Caporale, - avrei voluto dirglielo da parecchi giorni: perché non s'assoggetta, scusi, a una operazione ormai facilissima? Potrebbe, volendo, liberarsi in poco tempo anche di questo lieve difetto. - Vede, signorina? - conclusi io. - Sarà che la donna è più generosa dell'uomo; ma le faccio notare che a poco a poco lei mi ha consigliato di combinarmi un'altra faccia. Perché avevo tanto insistito su questo discorso? Volevo proprio che la maestra Caporale mi spiattellasse lì, in presenza d'Adriana, ch'ella mi avrebbe amato, anzi mi amava, anche così, tutto raso, e con quell'occhio sbalestrato? No. Avevo tanto parlato e avevo rivolto tutte quelle domande particolareggiate alla Caporale, perché m'ero accorto del piacere forse incosciente che provava Adriana alle risposte vittoriose che quella mi dava. Compresi così, che, non ostante quel mio strambo aspetto, ella avrebbe potuto amarmi. Non lo dissi neanche a me stesso; ma, da quella sera in poi, mi sembrò più soffice il letto ch'io occupavo in quella casa, più gentili tutti gli oggetti che mi circondavano, più lieve l'aria che respiravo, più azzurro il cielo, più splendido il sole. Volli credere che questo mutamento dipendesse ancora perché Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stìa, e perché io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l'equilibrio, raggiunto l'ideale che m'ero prefisso, di far di me un altr'uomo, per vivere un'altra vita, che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me. E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell'esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più tanto nojoso: l'ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s'accorgeva che pensava ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a' suoi bei dì! Era più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a dar l'allegria di quell'indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell'anima, ci sentiva bella, lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se avesse trovato un uomo « generoso »! Forse non avrebbe più bevuto neppure un dito di vino. « Se noi riconosciamo, » pensavo, « che errare è dell'uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia? » E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale. Me lo proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che, alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva. Non sapevo bene ciò che dicessi, ma sentivo che ogni parola, il suono, l'espressione di essa non spingeva mai tanto oltre il turbamento di colei a cui veramente era diretta, da rompere la segreta armonia, che già - non so come - s'era tra noi stabilita. Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano. Quante volte non ne feci l'esperienza con Adriana! Ma l'impaccio ch'ella provava era allora per me effetto del natural ritegno e della timidezza della sua indole, e il mio credevo derivasse dal rimorso che la finzione mi cagionava, la finzione del mio essere, continua, a cui ero obbligato, di fronte al candore e alla ingenuità di quella dolce e mite creatura. La vedevo ormai con altri occhi. Ma non s'era ella veramente trasformata da un mese in qua? Non s'accendevano ora d'una più viva luce interiore i suoi sguardi fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come un'ostentazione? Sì, forse anch'ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno di farsi l'illusione d'una nuova vita, senza voler sapere né quale né come. Un desiderio vago, come un'aura dell'anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell'avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là. Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera signorina Caporale. - Oh sa, signorina, - diss'io a questa una sera, - che quasi quasi ho deciso di e il suo consiglio? - Quale? - mi domandò ella. - Di farmi operare da un oculista. La Caporale batté le mani, tutta contenta. - Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l'Ambrosini: è il più bravo: fece l'operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io? Adriana sorrise, e sorrisi anch'io. - Non lo specchio, signorina - dissi però. - S'è fatto sentire il bisogno. Da un po' di tempo a questa parte, l'occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo. Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito. Pochi giorni dopo, una scena notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d'una delle mie finestre, venne a frastornarmi all'improvviso. La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m'ero messo a leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione. Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l'orecchio per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente: sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa non c'eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m'appressai alla finestra per guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina Caporale. Ma chi era quell'uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano? Da una parola proferita un po' più forte dalla Caporale compresi che parlavano di me. M'accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l'orecchio. Quell'uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d'attenuar l'impressione che quelle notizie avevan prodotto nell'animo di colui. - Ricco? - domandò egli, a un certo punto. E la Caporale: - Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla... - Sempre per casa? - Ma no! E poi domani lo vedrai... Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano (non c'era più dubbio) era l'amante della signorina Caporale... E come mai, allora, in tutti quei giorni, s'era ella dimostrata così condiscendente con me? La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai d'ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente. - Ma come potevo io impedirlo? - disse quella, alzando un po' la voce con intensa esasperazione. - Chi sono io? che rappresento io in questa casa? - Chiamami Adriana! - le ordinò quegli allora, imperioso. Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii frizzarmi il sangue per le vene. - Dorme, - disse la Caporale. E colui, fosco, minaccioso : - Va' a svegliarla! subito! Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana. Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: « Chi sono io? che rappresento io in questa casa? ». Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell'uomo voleva ancora parlarne con Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo. La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere ch'io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer coscienza di quello ben più vivo che un'altra mi destava in quel momento. Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana. La Caporale non era più nel terrazzino. L'altro, rimasto solo, s'era messo a guardare il fiume appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa tra le mani. In preda a un'ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto levarsi. Ma no: eccola! Papiano le andò subito incontro. - Lei vada a letto! - intimò alla signorina Caporale. - Mi lasci parlare con mia cognata. Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da pranzo e il terrazzino. - Nient'affatto! - disse Adriana, tendendo un braccio contro l'imposta. - Ma io ho da parlarti! - inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di parlar basso. - Parla così! Che vuoi dirmi? - riprese Adriana. - Avresti potuto aspettare fino a domani. - No! ora! - ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé. - Insomma! - gridò Adriana, svincolandosi fieramente. Non mi potei più reggere: aprii la persiana. - Oh! signor Meis! - chiamò ella subito. - Vuol venire un po' qua, se non le dispiace? - Eccomi, signorina! - m'affrettai a rispondere. Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d'un salto, fui nel corridojo: ma lì, presso l'uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che apriva a malapena un pajo d'occhi azzurri, languidi, attoniti: m'arrestai un momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi al terrazzino. - Le presento, signor Meis, - disse Adriana, - mio cognato Terenzio Papiano, arrivato or ora da Napoli. - Felicissimo! Fortunatissimo! - esclamò quegli, scoprendosi, strisciando una riverenza, e stringendomi calorosamente la mano. - Mi dispiace ch'io sia stato tutto questo tempo assente da Roma; ma son sicuro che la mia cognatina avrà saputo provvedere a tutto, è vero? Se le mancasse qualche cosa, dica, dica tutto, sa! Se le bisognasse, per esempio, una scrivania più ampia... o qualche altro oggetto, dica senza cerimonie... A noi piace accontentare gli ospiti che ci onorano. - Grazie, grazie, - dissi io. - Non mi manca proprio nulla. Grazie. - Ma dovere, che c'entra! E si avvalga pure di me, sa, in tutte le sue opportunità, per quel poco che posso valere... Adriana, figliuola mia, tu dormivi: ritorna pure a letto, se vuoi... - Eh, tanto, - fece Adriana, sorridendo mestamente, - ora che mi son levata... E s'appressò al parapetto, a guardare il fiume. Sentii ch'ella non voleva lasciarmi solo con colui. Di che temeva? Rimase lì, assorta, mentre l'altro, col cappello ancora in mano, mi parlava di Napoli, dove aveva dovuto trattenersi più tempo che non avesse preveduto, per copiare un gran numero di documenti dell'archivio privato dell'eccellentissima duchessa donna Teresa Ravaschieri Fieschi: Mamma Duchessa, come tutti la chiamavano, Mamma Carità, com'egli avrebbe voluto chiamarla: documenti di straordinario valore, che avrebbero recato nuova luce su la fine del regno delle due Sicilie e segnatamente su la figura di Gaetano Filangieri, principe di Satriano, che il marchese Giglio, don Ignazio Giglio d'Auletta, di cui egli, Papiano, era segretario, intendeva illustrare in una biografia minuta e sincera. Sincera almeno quanto la devozione e la fedeltà ai Borboni avrebbero al signor marchese consentito. Non la finì più. Godeva certo della propria loquela, dava alla voce, parlando, inflessioni da provetto filodrammatico, e qua appoggiava una risatina e là un gesto espressivo. Ero rimasto intronato, come un ceppo d'incudine, e approvavo di tanto in tanto col capo e di tanto in tanto volgevo uno sguardo ad Adriana, che se ne stava ancora a guardare il fiume. - Eh, purtroppo! - baritoneggiò, a mo' di conclusione, Papiano. - Borbonico e clericale, il marchese Giglio d'Auletta! E io, io che... (devo guardarmi dal dirlo sottovoce, anche qui, in casa mia) io che ogni mattina, prima d'andar via, saluto con la mano la statua di Garibaldi sul Gianicolo (ha veduto? di qua si scorge benissimo), io che griderei ogni momento: « Viva il XX settembre! », io debbo fargli da segretario! Degnissimo uomo, badiamo! ma borbonico e clericale. Sissignore... Pane! Le giuro che tante volte mi viene da sputarci sopra, perdoni! Mi resta qua in gola, m'affoga... Ma che posso farci? Pane! pane! Scrollò due volte le spalle, alzò le braccia e si percosse le anche. - Sù, sù, Adrianuccia! - poi disse, accorrendo a lei e prendendole, lievemente, con ambo le mani la vita : - A letto! E tardi. Il signore avrà sonno. Innanzi all'uscio della mia camera Adriana mi strinse forte la mano, come finora non aveva mai fatto. Rimasto solo, io tenni a lungo il pugno stretto, come per serbar la pressione della mano di lei. Tutta quella notte rimasi a pensare, dibattendomi tra continue smanie. La cerimoniosa ipocrisia, la servilità insinuante e loquace, il malanimo di quell'uomo mi avrebbero certamente reso intollerabile la permanenza in quella casa, su cui egli - non c'era dubbio - voleva tiranneggiare, approfittando della dabbenaggine del suocero. Chi sa a quali arti sarebbe ricorso! Già me n'aveva dato un saggio, cangiando di punto in bianco, al mio apparire. Ma perché vedeva così di malocchio ch'io alloggiassi in quella casa? perché non ero io per lui un inquilino come un altro? Che gli aveva detto di me la Caporale? poteva egli sul serio esser geloso di costei? o era geloso di un'altra? Quel suo fare arrogante e sospettoso; l'aver cacciato via la Caporale per restar solo con Adriana, alla quale aveva preso a parlare con tanta violenza; la ribellione di Adriana; il non aver ella permesso ch'egli chiudesse le imposte; il turbamento ond'era presa ogni qualvolta s'accennava al cognato assente, tutto, tutto ribadiva in me il sospetto odioso ch'egli avesse qualche mira su lei. Ebbene e perché me n'arrovellavo tanto? Non potevo alla fin fine andar via da quella casa, se colui anche per poco m'infastidiva? Che mi tratteneva? Niente. Ma con tenerissimo compiacimento ricordavo che ella dal terrazzino m'aveva chiamato, come per esser protetta da me, e che infine m'aveva stretto forte forte la mano... Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi: « Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero? »

 

XI

UN SOIR, EN REGARDANT LE FLEUVE

À mesure que la familiarité grandissait, grâce à la sympathie que me témoignait le maître de la maison, grandissait aussi pour moi la difficulté de converser, la secrète gêne que j’avais déjà éprouvée et qui souvent, à présent, devenait aiguë comme un remords, à me voir là, en intrus, dans cette famille, avec un nom faux, les traits altérés, avec une existence fictive et comme inconsistante. Et je me proposais de me tenir à l’écart, me répétant que je ne devais pas approcher trop de la vie d’autrui, que je devais fuir toute intimité et me contenter de vivre ainsi à part moi.

– Libre ? disais-je encore.

Mais déjà je commençais à pénétrer le sens et à mesurer l’extension de cette liberté.

Ainsi, par exemple, cette liberté consistait à rester là, le soir, accoudé à une fenêtre, à regarder le fleuve qui courait, noir et silencieux, entre les quais neufs et sous les ponts, qui y reflétaient les lumières de leurs becs de gaz, tremblantes comme de petits serpents de feu ; cela voulait dire suivre par l’imagination le cours de ces eaux, depuis la lointaine source des Apennins, puis par toutes ces campagnes, maintenant à travers la ville, puis de nouveau par la campagne, jusqu’à l’embouchure ; puis je me représentais par la pensée la mer ténébreuse et palpitante, où ces eaux, après une si longue course, allaient se perdre. Et cette liberté enfin me permettait d’ouvrir de temps en temps la bouche pour laisser passer un bâillement.

Mais cette liberté eût-elle été différente ailleurs ?

Je voyais, certains soirs, sur une terrasse à côté, la petite maman en robe de chambre, occupée à arroser les pots de fleurs. « Voilà la vie ! » pensais-je. Et je suivais des yeux la douce enfant dans sa gentille occupation, attendant à chaque instant qu’elle levât les yeux vers ma fenêtre. Mais en vain. Elle savait que j’étais là ; mais quand elle était seule, elle feignait de ne pas s’en apercevoir. Pourquoi ?

Était-ce l’effet de la timidité seulement, cette retenue ? Ou peut-être m’en voulait-elle encore, en secret, la chère petite maman, du peu d’attention que je m’obstinais à lui témoigner !

À présent, ayant posé son arrosoir, elle s’appuyait au parapet de la terrasse et se mettait à regarder le fleuve, elle aussi, peut-être pour me faire voir qu’elle ne se souciait pas de moi le moins du monde et qu’elle avait pour son compte des pensées bien graves à méditer.

Je souriais en moi-même, à cette idée ; mais ensuite, en la voyant se retirer de la terrasse, je réfléchissais que mon jugement pouvait être aussi le fruit du dépit instinctif que chacun éprouve à se voir négligé.

« Pourquoi, du reste, me demandais-je, s’occuperait-elle de moi ? Je personnifie ici le malheur de sa vie, la folie de son père ; je représente peut-être une humiliation pour elle. Peut-être regrette-t-elle encore le temps où son père était en activité et n’avait pas besoin de louer des chambres et d’avoir des étrangers plein sa maison. Et puis, un étranger comme moi ! Je lui fais peut-être peur. Pauvre gamine ! avec cet œil et ces lunettes… »

Le bruit de quelque voiture, sur le pont tout proche, m’arrachait à ces réflexions ; je me retirais de la fenêtre ; je regardais le lit, je regardais les livres, je restais un peu perplexe entre ceux-ci et celui-là. Puis je haussais enfin les épaules ; je saisissais mon grand chapeau et je sortais, espérant me délivrer, dehors, de cet obsédant ennui.

J’allais, selon l’inspiration du moment, ou dans les rues les plus peuplées, ou dans les lieux solitaires. Je me rappelle, une nuit, place Saint-Pierre, l’impression d’un rêve, d’un rêve comme lointain, qui m’envahit de ce monde séculaire, enfermé là, entre les bras du portique majestueux, dans le silence qui paraissait accru par le continuel murmure des deux fontaines. Je m’approchai de l’une d’elles, et alors cette eau seulement me sembla vivante, et tout le reste comme spectral et profondément mélancolique dans sa silencieuse et dans son immobile solennité.

En rentrant par le Borgo Nuovo, je rencontrai un ivrogne qui, passant près de moi et me voyant pensif, se baissa, avança un peu la tête pour me regarder au visage, par-dessous, et me dit, en me secouant légèrement le bras :

– De la gaieté !

Je m’arrêtai net, surpris, à le dévisager des pieds à la tête.

– De la gaieté ! répéta-t-il, accompagnant son exhortation d’un geste de la main qui signifiait : « Que fais-tu ? Que penses-tu ? Ne te soucie de rien ! »

Et il s’éloigna, titubant, se soutenant avec une main au mur.

À cette heure, par cette rue déserte, là tout près du grand temple, et avec les pensées qu’il m’avait suggérées encore dans l’esprit, l’apparition de cet ivrogne et son étrange conseil amical et philosophiquement compatissant me renversèrent : je restai, je ne sais combien de temps à suivre des yeux cet homme, puis je sentis mon ébahissement se dissiper dans un rire fou.

« De la gaieté ! Oui, mon ami. Mais je ne puis pas aller au cabaret chercher la gaieté que tu me conseilles, au fond d’un verre. Je ne saurais pas l’y trouver, hélas ! Et je ne sais pas la trouver ailleurs ! Rentrons chez nous ! »

Mais c’était la nuit des rencontres.

En passant, un peu plus loin, par Tordinona, presque dans l’obscurité, j’entendis un cri perçant, parmi d’autres étouffés, dans une des ruelles qui débouchent sur cette rue. Brusquement, je vis se précipiter devant moi un groupe où l’on se battait. C’étaient quatre misérables, armés de bâtons noueux, se ruant sur une femme de carrefour.

Ces lâches étaient quatre, mais, j’avais, moi aussi, un bon bâton ferré. Il est vrai que deux d’entre eux s’élancèrent sur moi avec des couteaux. Je me défendis de mon mieux, en faisant le moulinet et en sautant de-ci, de-là, à temps pour ne pas me faire prendre au milieu d’eux ; je réussis enfin à assener sur la tête du plus acharné un coup formidable avec la pomme de fer : je le vis vaciller, puis prendre sa course ; les trois autres, alors, craignant peut-être que quelqu’un accourût aux cris aigus de la femme, le suivirent. Je ne sais comment, je me trouvai blessé au front. Je criai à la femme, qui ne cessait pas encore d’appeler au secours, de se taire ; mais, me voyant la figure inondée de sang, elle ne sut se contenir et, en pleurant, tout échevelée, elle voulut me secourir, me bander avec le mouchoir de soie, déchiré dans la rixe, qu’elle portait sur le sein.

– Non, non ! merci ! lui dis-je en me défendant avec dégoût. Assez… Ce n’est rien ! Va, va-t’en tout de suite… Ne te fais pas voir.

Et je gagnai la fontaine qui est sous la rampe du pont, tout près de là, pour me laver le front. Mais, pendant que j’étais là, voici venir deux agents hors d’haleine, qui voulurent savoir ce qui était arrivé. Aussitôt, la femme, qui était de Naples, se mit à raconter le danger qu’elle avait couru avec moi, me prodiguant les phrases les plus affectueuses et les plus admiratives de son répertoire. J’eus bien de la peine à me débarrasser de ces deux zélés policiers, qui voulaient absolument m’emmener avec eux, afin que je dénonçasse le fait. Il n’aurait plus manqué que cela ! Avoir affaire avec la police maintenant ! Paraître le lendemain dans la chronique des journaux comme un héros, moi qui devais rester silencieux, dans l’ombre, ignoré de tous.

C’est que, héros, je ne pouvais plus l’être, sinon à condition d’en mourir… ! Mais puisque j’étais déjà mort.

*

* *

– Pardon ! monsieur Meis, êtes-vous veuf ?

Cette question me fut adressée à brûle-pourpoint, un soir, par mademoiselle Caporale, sur la terrasse, où elle se trouvait avec Adrienne et où toutes deux m’avaient invité à passer quelques instants en leur compagnie.

Gêné, je répondis :

– Moi ? Non. Pourquoi ?

– Parce que vous vous frottez toujours l’annulaire avec le pouce comme quand on veut faire tourner une bague autour de son doigt. Est-ce vrai, Adrienne ?

Voyez un peu jusqu’où vont se fourrer les yeux des femmes, ou plutôt de certaines femmes, car Adrienne déclara ne s’en être jamais aperçue.

– Tu n’y auras pas fait attention ! s’écria la Caporale.

Je dus convenir que, bien que moi non plus je n’y eusse jamais fait attention, il pouvait se faire que j’eusse ce tic.

– J’ai porté, en effet, me vis-je contraint d’ajouter, une petite bague que j’ai ensuite dû faire couper par un orfèvre, parce qu’elle me serrait le doigt et me faisait mal.

– Pauvre petite bague ! gémit alors, en se tortillant, la quadragénaire, en veine, ce soir, de minauderies enfantines… Elle ne voulait plus vous sortir du doigt ? Peut-être était-ce un souvenir d’amour ?…

– Silvia ! interrompit la petite Adrienne d’un ton de reproche.

– Quel mal y a-t-il ? reprit l’autre. Je voulais dire d’un premier amour… Voyons ! contez-nous cela, monsieur Meis ! Est-il possible que vous ne vouliez jamais parler ?

– C’est que, dis-je, je pensais aux conséquences que vous avez tirées de mon tic de me frotter ce doigt. Conséquence arbitraire, ma chère mademoiselle. Car les veufs, que je sache, n’ont pas l’habitude d’enlever leur alliance. La femme, à la rigueur, peut être à charge, mais non pas l’anneau, quand la femme n’est plus. Bien plutôt, de même que les vétérans aiment à s’orner de leurs médailles, ainsi le veuf aime, je crois, à porter son alliance.

– Eh oui ! s’écria la Caporale. Vous détournez habilement la conversation. Mais je n’en ai pas moins eu cette impression…

– Que j’étais veuf ?

– Oui, monsieur. Ne te semble-t-il pas à toi aussi, Adrienne ?

Adrienne essaya de lever les yeux sur moi, mais les rabaissa aussitôt, ne sachant – timide comme elle l’était – soutenir le regard d’autrui. Elle sourit de son sourire habituel, doux et triste, et dit :

– Que sais-je, moi, de l’air des veufs ? Tu es trop curieuse !

À ce moment elle se troubla et se tourna pour regarder le fleuve, en bas. Sans doute, l’autre comprit, car elle soupira, et se mit, elle aussi, à regarder le fleuve.

Un quatrième personnage, invisible, était évidemment venu se fourrer entre nous. Je compris, à la fin, moi aussi, en regardant la robe de chambre demi-deuil d’Adrienne. Je conjecturai que Térence Papiano, le beau-frère qui se trouvait encore à Naples, ne devait pas avoir l’air d’un veuf contrit et que, par conséquent, cet air, selon mademoiselle Caporale, je l’avais, moi.

J’avoue que je trouvai plaisir à ce que cette conversation finît mal. La douleur causée à Adrienne par le souvenir de sa sœur morte et de Papiano veuf était, en effet, pour la Caporale, le châtiment de son indiscrétion.

Pourtant, ce qui me paraissait à moi une indiscrétion, n’était-ce pas, au fond, une curiosité très excusable qui naissait forcément de mon silence étrange ? Et puisque la solitude me devenait désormais insupportable, et que je ne savais pas résister à la tentation de m’approcher des autres, il fallait bien qu’aux questions de ces autres, je satisfisse de la meilleure façon possible, c’est-à-dire en mentant, en inventant. Il n’y avait pas d’autre alternative ! Ce n’était pas la faute des autres, mais la mienne : à présent, j’allais l’aggraver, c’est vrai, par le mensonge ; mais si je ne voulais pas, si j’en souffrais, je n’avais qu’à m’en aller, qu’à reprendre mon vagabondage solitaire.

Je remarquais qu’Adrienne elle-même, qui ne m’adressait jamais aucune demande, sinon discrète, était pourtant tout oreilles quand je répondais à la Caporale. Celle-ci, à vrai dire, dépassait souvent les limites de la curiosité naturelle.

Un soir, par exemple, sur cette même terrasse, après le dîner, la Caporale me questionna en riant, tandis qu’Adrienne lui criait :

– Non, Silvia ! Je te le défends ! Ne t’y risque pas !

– Pardon ! monsieur Meis, dit la Caporale, Adrienne veut savoir pourquoi vous ne vous laissez pas pousser les moustaches…

– Ce n’est pas vrai ! cria Adrienne. Ne la croyez pas, monsieur Meis ! C’est elle, au contraire… Moi…

Elle fondit en larmes, brusquement, la chère petite maman. Aussitôt, la Caporale chercha à la consoler, en lui disant :

– Mais non, voyons ! Qu’est-ce que cela fait ? Qu’y a-t-il de mal ?

Adrienne la repoussa :

– Il y a de mal que tu as menti et que tu me fais enrager ! Nous parlions des acteurs de théâtre qui sont tous… comme cela, et alors tu as dit : Comme monsieur Meis ! Qui sait pourquoi il ne laisse pas pousser au moins sa moustache ?… et moi j’ai dit : Qui sait pourquoi ?…

– Eh bien ! reprit la Caporale, quand on dit : Qui sait pourquoi ? cela veut dire qu’on veut le savoir !

– Mais tu l’avais dit d’abord, toi ! protesta Adrienne au comble de l’irritation.

– Puis-je répondre ? demandai-je pour rétablir le calme.

– Non ! Excusez, monsieur Meis ! bonsoir ! dit Adrienne.

Et elle se leva pour s’en aller.

Mais la Caporale la retint par le bras :

– Eh ! voyons ! petite sotte que tu es ! C’est pour rire… Monsieur Adrien est si bon qu’il nous excuse. N’est-ce pas, monsieur Adrien ? Dites-le-lui, vous… pourquoi vous ne vous laissez pas pousser les moustaches.

Cette fois, Adrienne se mit à rire, les yeux encore pleins de larmes.

– Parce qu’il y a là-dessous un mystère, répondis-je alors en altérant ma voix d’une façon burlesque. Je suis un conjuré !

– Nous n’y croyons pas ! s’écria la Caporale sur le même ton. Mais ensuite elle ajouta :

– Pourtant, écoutez : que vous soyez un sournois, on ne peut mettre cela en doute. Qu’êtes-vous allé faire, par exemple, cet après-midi à la poste ?

– Moi, à la poste ?

– Oui, monsieur. Vous le niez ? Je vous ai vu de mes yeux. Vers quatre heures… Je passais sur la place Saint-Sylvestre.

– Vous vous serez trompée, mademoiselle : ce n’était pas moi.

– Bah ! bah ! fit la Caporale, incrédule. Correspondance secrète… Car, n’est-ce pas, Adrienne ? monsieur ne reçoit jamais de lettre à la maison. C’est la femme de service qui me l’a dit, attention !

Adrienne s’agita, ennuyée, sur sa chaise.

– Ne l’écoutez pas, me dit-elle, en me lançant un regard plaintif et presque caressant.

– Ni à la maison, ni poste restante ! répondis-je. Ce n’est que trop vrai ! Personne ne m’écrit, mademoiselle, par la raison bien simple que je n’ai plus personne qui puisse m’écrire.

– Pas même un ami ? Est-ce possible ? Personne ?

– Personne. Je n’ai que moi et mon ombre sur la terre. Je l’ai menée promener, cette ombre, de-ci, de-là, continuellement, et je ne me suis jamais, jusqu’à présent, assez arrêté dans un endroit pour y pouvoir contracter une amitié durable.

– Vous êtes heureux ! s’écria la Caporale en soupirant, d’avoir pu voyager toute votre vie ! Parlez-nous au moins de vos voyages, voyons ! si vous ne voulez pas nous parler d’autre chose.

Et voici qu’après un an et davantage de silence forcé, je prenais un vrai plaisir à parler, tous les soirs, là, sur la petite terrasse, de ce que j’avais vu, des observations faites, des incidents qui m’étaient survenus çà et là. Je m’émerveillais moi-même d’avoir recueilli, en voyageant, tant et tant d’impressions, que le silence avait comme ensevelies en moi, et qui, à présent, tandis que je parlais, ressuscitaient, me jaillissaient des lèvres toutes vives. Cet émerveillement intime colorait ma narration d’une manière extraordinaire ; et puis du plaisir que les deux femmes, en m’écoutant, semblaient éprouver, naissait peu à peu le regret d’un bien dont je n’avais pas réellement joui alors. Ce regret donnait une nouvelle saveur à mon récit.

Après quelques soirs, l’attitude, les manières de mademoiselle Caporale étaient radicalement changées à mon égard. Ses yeux dolents s’appesantirent d’une langueur intense. Il n’y avait pas de doute, mademoiselle Caporale était amoureuse de moi !

La surprise ridicule que j’en éprouvai me fit découvrir cependant que, pendant toutes ces soirées, je n’avais point parlé pour elle, mais, pour cette autre qui était toujours restée taciturne, à écouter. Évidemment, pourtant, cette autre avait aussi senti que je parlais pour elle seule, car tout de suite s’établit entre nous comme une entente tacite pour nous amuser ensemble de l’effet comique et imprévu de mes paroles sur les trop sensibles cordes sentimentales de la maîtresse de piano quadragénaire.

*

* *

Mais, avec cette découverte, aucune pensée impure n’entra en moi pour Adrienne : cette candide bonté voilée de tristesse ne pouvait en inspirer. J’éprouvais pourtant une grande joie de cette première confiance qu’elle m’accordait, confiance légère et silencieuse, telle et aussi grande que sa délicate timidité le lui permettait.

– Vous ne devez pas avoir beaucoup de cœur, me dit un jour la Caporale, s’il est vrai que vous avez jusqu’ici traversé la vie sain et sauf.

– Sain et sauf ?

– Oui, j’entends sans avoir éprouvé aucune passion.

– Jamais, mademoiselle, jamais !

– En tout cas, vous n’avez pas voulu nous dire d’où vous venait cet anneau que vous avez fait couper par un orfèvre parce qu’il vous serrait trop le doigt…

– Et qu’il me faisait mal ! Je ne vous l’ai pas dit ? Mais si ! C’était un souvenir de mon grand-père, mademoiselle.

– Mensonge !

– Comme il vous plaira ; mais voyez, je puis vous dire que mon grand-père m’avait fait cadeau de cet anneau à Florence, en sortant de la galerie des Offices, – j’avais alors douze ans, parce que j’avais pris un Pérugin pour un Raphaël. En récompense de cette erreur, j’eus l’anneau. Mon grand-père, en effet, croyait fermement, je ne sais pour quelles raisons, que ce tableau du Pérugin devait être attribué à Raphaël. Voilà le mystère expliqué ! Vous comprendrez qu’entre la main d’un jeune garçon de douze ans et ma grosse patte il y a de la marge. Vous voyez ? Maintenant, je suis tout entier ainsi, comme cette patte à qui vont mal les bagues gracieuses. Du cœur, j’en aurais peut-être ; mais je suis juste aussi, mademoiselle ; je me regarde dans la glace, avec cette belle paire de lunettes, qui pourtant me sont dans une certaine mesure charitables, et je sens les bras me tomber : « Comment peux-tu prétendre, mon cher Adrien, me dis-je à moi-même, que jamais une femme s’éprenne de toi ? »

– Oh ! quelles idées ! s’exclama la Caporale. Mais vous croyez être juste en parlant ainsi et, au contraire, vous êtes très injuste envers nous autres femmes. Car la femme, monsieur Meis, sachez-le, est plus généreuse que l’homme et ne s’attache pas, comme lui, à la seule beauté extérieure.

– Disons alors que la femme est aussi plus courageuse que l’homme, mademoiselle. Car je reconnais que, outre la générosité, il faudrait une belle dose de courage pour aimer vraiment un homme comme moi.

– Mais voulez-vous vous taire ! Vous aimez à vous faire plus laid que vous n’êtes.

– Cela est vrai. Et savez-vous pourquoi ? Pour n’inspirer de compassion à personne. Si je cherchais, voyez-vous, à m’arranger un peu, je ferais dire : « Voyez un peu ce pauvre homme : il se flatte de paraître moins laid avec cette paire de moustaches ! » Au contraire, comme cela, non. Je suis laid ? Eh bien ! laid jusqu’au bout, de tout cœur, sans miséricorde. Qu’en dites-vous ?

Mademoiselle Caporale poussa un profond soupir.

– Je dis que vous avez tort, répondit-elle ensuite. Si vous essayiez au contraire de vous laisser croître un peu de barbe, par exemple, vous vous apercevriez tout de suite que vous n’êtes pas le monstre que vous dites.

– Et cet œil-ci lui demandai-je.

– Oh ! mon Dieu ! fit la Caporale, pourquoi ne vous soumettez-vous pas à une opération, aujourd’hui si facile ? Vous pourriez, si vous vouliez, vous débarrasser en peu de temps de ce léger défaut.

– Voyez-vous, mademoiselle ? conclus-je. Sans doute que la femme est plus généreuse que l’homme ; mais je vous ferai remarquer que petit à petit vous m’avez conseillé de me composer une autre figure.

Pourquoi avais-je tant insisté sur ce sujet ? Voulais-je vraiment que mademoiselle Caporale me déclarât là, en présence d’Adrienne, qu’elle m’aurait aimé, ou plutôt qu’elle m’aimait, même comme cela, tout rasé, et avec cet œil dévoyé ? Non. Si j’avais tant parlé, et si j’avais adressé toutes ces questions détaillées à la Caporale, c’est que je m’étais aperçu du plaisir, peut-être inconscient, qu’éprouvait Adrienne aux réponses victorieuses qu’elle me faisait.

Je compris ainsi que nonobstant mon aspect baroque, elle aurait pu m’aimer. À partir de ce soir-là, je trouvai plus doux le lit que j’occupais dans cette maison, plus jolis tous les objets qui m’entouraient, plus léger l’air que je respirais, le ciel plus bleu, le soleil plus brillant. Je voulus croire que ce changement provenait encore de ce que Mathias Pascal avait fini là, dans le moulin de l’Épinette, et qu’après avoir erré dans cette nouvelle liberté illimitée, j’avais enfin trouvé l’équilibre, atteint l’idéal proposé, de faire de moi un autre homme, pour vivre une autre vie.

Et mon esprit redevint enjoué, comme dans ma première jeunesse ; il perdit le poison de l’expérience. Jusqu’à monsieur Anselme Paleari qui ne me sembla plus si ennuyeux.

Et je me proposai même de n’être plus cruel envers mademoiselle Caporale. Je me le proposai, mais, hélas ! je le fus sans le vouloir, et même je le fus d’autant plus que je voulus l’être moins. Il arriva ceci : à mes paroles, la pauvre femme pâlissait, tandis qu’Adrienne rougissait. Je ne savais pas bien ce que je disais, mais je sentais que mes paroles, leur son, leur expression, n’augmentaient pas assez le trouble de celle à qui elles étaient réellement adressées, pour rompre la secrète harmonie qui déjà – je ne sais comment – s’était établie entre nous.

Les âmes ont une manière à elles de s’entendre, d’entrer en intimité jusqu’à se tutoyer, tandis que nos personnes sont encore empêtrées dans l’échange des paroles banales. Et chaque fois que deux êtres qui communiquent ainsi entre eux, avec les âmes seulement, se trouvent seuls en quelque endroit, elles éprouvent un trouble anxieux et comme une répulsion violente pour le moindre contact matériel, une souffrance qui les éloigne et qui cesse subitement, à peine un tiers est-il intervenu. Alors, l’angoisse passée, les deux âmes soulagées se cherchent et se sourient de loin.

Combien de fois n’en fis-je pas l’expérience avec Adrienne ! Mais la gêne qu’elle éprouvait était alors pour moi un effet de sa retenue naturelle et de la timidité de sa nature et, pour la mienne, je croyais qu’elle provenait du remords que me causait la fiction à laquelle j’étais obligé, devant la candeur et l’ingénuité de cette douce et affable créature.

Je la voyais désormais avec d’autres yeux. Mais ne s’était-elle pas aussi vraiment transformée depuis un mois ? Ses regards fugitifs ne s’éclairaient-ils pas maintenant d’une lumière intérieure plus vive ? Et ses sourires ne montraient-ils pas moins pénible l’effort que lui coûtait cette attitude de sage petite maman, qui tout d’abord m’était apparue comme une ostentation ?

Oui, peut-être qu’elle aussi obéissait au même besoin que moi, au besoin de se créer l’illusion d’une nouvelle vie, sans vouloir savoir ni laquelle ni comment. Un désir vague, comme une brise de l’âme, avait ouvert tout doucement pour elle, comme pour moi, une fenêtre dans l’avenir, d’où un rayon d’une tiédeur enivrante arrivait jusqu’à nous, qui ne savions cependant nous approcher de cette fenêtre ni pour la refermer ni pour voir ce qu’il y avait de l’autre côté.

Et cette ivresse pure et suave que nous partagions faisait ressentir ses effets à la pauvre mademoiselle Caporale.

– Vous savez, mademoiselle, lui dis-je un soir, que j’ai presque décidé de suivre votre conseil.

– Lequel ?

– De me faire opérer par un oculiste.

La Caporale battit des mains, toute contente.

– Parfait ! Le docteur Ambrosini ! Appelez Ambrosini : c’est le plus habile, il a fait l’opération de la cataracte à ma pauvre mère. Tu vois, Adrienne, que le miroir a parlé. Qu’est-ce que je te disais ?

Adrienne sourit, et je souris à mon tour.

– Non, pas le miroir, mademoiselle, dis-je pourtant. Le besoin s’en est fait sentir. Depuis quelque temps, mon œil me fait mal : il ne m’a jamais bien servi ; toutefois, je ne voudrais pas le perdre.

Ce n’était pas vrai ; c’était mademoiselle Caporale qui avait raison : le miroir, le miroir avait parlé et m’avait dit que si une opération relativement légère pouvait me faire disparaître du visage ce trait malencontreux de Mathias Pascal, Adrien Meis pourrait aussi se passer de lunettes bleues, se concéder une paire de moustaches et mettre mieux d’accord son physique avec les conditions modifiées de son esprit.

Mais je dus changer d’idées à la suite d’une scène nocturne à laquelle j’assistai, caché derrière la persienne d’une de mes fenêtres.

Cette scène se déroula sur la terrasse, là, à côté. Je m’y étais attardé jusque vers dix heures en compagnie des deux femmes. Rentré dans ma chambre, je m’étais mis à lire distraitement un des livres préférés de M. Anselme, sur la Réincarnation. Il me sembla tout à coup entendre parler sur la terrasse : je tendis l’oreille pour vérifier si c’était Adrienne. Non. Deux personnes causaient bas, vite : j’entendis une voix d’homme qui n’était pas celle de Paleari. Mais en fait d’hommes à la maison, il n’y avait que lui et moi. Ma curiosité éveillée, je m’avançai vers la fenêtre pour regarder par les fentes des persiennes. Dans l’obscurité, il me sembla reconnaître mademoiselle Caporale. Mais qui était cet homme avec qui elle causait ? Térence Papiano était-il arrivé de Naples, à l’improviste ?

À un mot proféré un peu plus fort par la Caporale, je compris qu’ils parlaient de moi. Cet homme se montrait irrité des renseignements que sans doute la maîtresse de piano lui avait donnés sur moi, et maintenant elle cherchait à atténuer l’impression que ces renseignements avaient produite sur l’esprit de celui-ci.

– Riche ? demanda-t-il à un certain moment.

Et la Caporale :

– Je ne sais pas Il me semble ! Certainement, il vit de ses rentes, sans rien faire.

– Toujours à la maison ?

– Mais non. D’ailleurs, demain tu le verras.

Elle dit bien ainsi : « Tu le verras. » Donc elle le tutoyait ; donc Papiano (il n’y avait plus de doute) était au mieux avec mademoiselle Caporale ?… Et comment diable, alors, tous ces jours-ci, m’avait-elle témoigné tant de condescendance ?

Ma curiosité devint plus vive que jamais ; mais comme s’ils l’eussent fait exprès, ils se mirent à parler tout bas. À défaut de mes oreilles, je cherchai à me servir de mes yeux. Et je vis que la Caporale posait une main sur l’épaule de Papiano. Celui-ci, peu après, la repoussait brutalement.

– Mais comment pouvais-je l’empêcher ? dit-elle en élevant la voix avec une exaspération intense. Que suis-je, moi ? Qu’est-ce que je représente dans cette maison ?

– Appelle Adrienne ! lui ordonna-t-il impérieusement.

En entendant prononcer le nom d’Adrienne sur ce ton, je serrai les poings, et je sentis mon sang bouillonner dans mes veines.

– Elle dort, dit la Caporale.

Et lui, sombre, menaçant :

– Va la réveiller, tout de suite !

Je ne sais comment je me retins d’ouvrir toute grande, furieusement, la persienne.

L’effort que je fis pour me maîtriser me permit cependant de rentrer en moi-même. Les paroles que je venais d’entendre prononcer avec tant d’exaspération par cette pauvre femme me venaient aux lèvres : « Que suis-je, moi ? Qu’est-ce que je représente dans cette maison ? »

Je me retirai de la fenêtre. Mais aussitôt me revint à la pensée qu’ils parlaient de moi tous les deux, et cet homme voulait encore parler de moi avec Adrienne : j’allais connaître ses sentiments à mon égard.

Cependant, la facilité avec laquelle j’accueillis cette excuse pour l’indélicatesse que je commettais en les espionnant, me fit sentir que je mettais en avant mon propre intérêt, pour m’empêcher de prendre conscience de celui, bien plus vif, qu’une autre m’inspirait à ce moment.

Je revins regarder à travers les lames des persiennes.

La Caporale n’était plus sur la terrasse. L’autre, resté seul, s’était mis à regarder le fleuve, appuyé des deux coudes sur le parapet et la tête dans les mains.

En proie à une anxiété frénétique, j’attendis qu’Adrienne parût sur la terrasse. Cette attente ne me fatigua nullement, mais bien plutôt me soulagea petit à petit, me procura une vive et croissante satisfaction : je supposai qu’Adrienne, là-bas, ne voulait pas se soumettre à la tyrannie du grossier personnage. Peut-être la Caporale la priait-elle, les mains jointes. Et cependant l’autre, ici, sur la terrasse, se rongeait de dépit. J’espérai un moment que la maîtresse de piano viendrait dire qu’Adrienne n’avait pas voulu se lever. Mais non : la voici !

Papiano alla aussitôt au-devant d’elle.

– Vous, allez vous coucher ! ordonna-t-il à mademoiselle Caporale. Laissez-moi parler avec ma belle-sœur.

Elle obéit, et alors Papiano se disposa à fermer la porte entre la salle à manger et la terrasse.

– Non, non ! dit Adrienne, tendant un bras contre la porte.

– Mais j’ai à te parler ! siffla le beau-frère, d’une manière sinistre, en s’efforçant de parler bas.

– Parle comme cela. Que veux-tu me dire ? reprit Adrienne. Tu aurais pu attendre jusqu’à demain.

– Non, tout de suite ! repartit-il, lui saisissant un bras et l’attirant à lui.

– Mais après tout ! cria Adrienne en se dégageant violemment.

Je ne pus y tenir ; j’ouvris la persienne.

– Oh ! monsieur Meis ! s’écria-t-elle aussitôt. Voulez-vous venir un peu ici, si cela ne vous ennuie pas ?

– Me voici, mademoiselle ! me hâtai-je de répondre.

Mon cœur bondit dans ma poitrine de joie et de reconnaissance : d’un saut, je fus dans le corridor ; mais, là, près de la porte de ma chambre, je trouvai assis sur une malle un jeune homme au visage fluet, très blond, au visage excessivement long, diaphane, qui ouvrait à grand-peine une paire d’yeux bleus, languissants, étonnés. Je m’arrêtai un moment surpris, à le regarder ; je pensai que c’était le frère de Papiano ; je courus à la terrasse.

– Je vous présente, monsieur Meis, dit Adrienne, mon beau-frère Térence Papiano, qui vient d’arriver de Naples.

– Enchanté ! Très heureux ! s’écria celui-ci se découvrant, s’inclinant et me serrant chaleureusement la main. Je regrette d’avoir été tous ces temps-ci absent de Rome ; mais je suis sûr que ma petite belle-sœur aura su pourvoir à tout, n’est-il pas vrai ? S’il vous manquait quelque chose, dites-le sans cérémonie… Nous aimons à contenter les hôtes qui nous honorent.

– Merci ! répondis-je. Il ne me manque absolument rien.

– Usez de moi, vous savez, en toute occasion, pour peu que je puisse vous servir. Adrienne, ma fille, tu dormais : retourne à ton lit, si tu veux…

– Ma foi, non ! fit Adrienne en souriant tristement. Maintenant que je me suis levée !…

Et elle s’approcha du parapet regarder le fleuve.

Je sentis qu’elle ne voulait pas me laisser seul avec lui. De quoi avait-elle peur ? Elle resta là, absorbée, tandis que l’autre, le chapeau encore à la main, me parlait de Naples, où il avait été forcé de rester plus longtemps qu’il n’avait prévu pour copier un grand nombre de documents des archives privées de l’Excellentissime duchesse Thérèse Ravaschieri Fieschi : Maman duchesse, comme tout le monde l’appelait, Maman Charité comme on aurait voulu l’appeler : documents d’une valeur extraordinaire, qui allaient jeter une nouvelle lumière sur la fin du royaume des Deux-Siciles et particulièrement sur la figure de Gaetan Filangieri, prince de Satriano, que le marquis Giglio, don Ignace Giglio d’Auletta, dont lui, Papiano, était secrétaire, avait l’intention de glorifier dans une biographie détaillée et sincère. Sincère au moins dans la mesure où le dévouement et la fidélité aux Bourbons le permettaient à Monsieur le marquis.

Il n’en finissait plus. Il jouissait assurément de sa propre éloquence et donnait à sa voix, en parlant, des inflexions d’acteur dramatique éprouvé, plaçant ici une risette et là un geste expressif. J’étais resté ahuri, là, comme une souche, et j’approuvais de temps en temps de la tête, et de temps en temps je tournais les yeux vers Adrienne qui toujours regardait le fleuve.

– Eh ! il n’est que trop vrai ! soupira en guise de conclusion Papiano. Bourboniste et clérical, le marquis Giglio d’Auletta et moi, moi qui… (je dois me garder de le dire, même tout bas, ici, dans ma maison), moi qui tous les matins avant de sortir, salue de la main la statue de Garibaldi sur le Janicule (Vous avez vu ? D’ici on la découvre très bien) moi qui crierais à tout moment : « Vive le 20 Septembre ! » je dois lui servir de secrétaire ! Un très digne homme, ne vous y trompez pas ! Mais bourboniste et clérical. Oui, monsieur !… Du pain ! Je vous jure que bien des fois l’envie me vient de cracher dessus, sauf votre respect ! Il me reste dans le gosier, m’étouffe… Mais qu’y puis-je faire ? Du pain ! du pain !

Il haussa deux fois les épaules, leva les bras et se frappa les hanches.

– Allons ! allons ! petite Adrienne ! dit-il ensuite en accourant vers elle et en lui prenant légèrement la taille des deux mains. Au lit ! Il est tard. Ce monsieur doit avoir sommeil.

Devant la porte de ma chambre, Adrienne me serra fortement la main, comme elle ne l’avait jamais fait jusqu’alors. Resté seul, je tins longtemps le poing fermé, comme pour conserver la pression de sa main. Toute cette nuit-là, je restai à penser, me débattant parmi de continuelles obsessions. L’hypocrisie cérémonieuse, la servilité insinuante et loquace, l’âme maudite de cet homme allaient certainement me rendre intolérable la vie commune dans cette maison, sur laquelle – ce n’était pas douteux – il voulait régner en tyran, en profitant de la bonhomie du beau-père. Qui sait à quels artifices il aurait recours ! Il m’en avait déjà donné un échantillon, en changeant de but en blanc, à mon apparition. Mais pourquoi trouvait-il si mal que je logeasse dans cette maison ? Pourquoi n’étais-je pas pour lui un locataire comme les autres ? Que lui avait dit de moi la Caporale ? Pouvait-il sérieusement être jaloux d’elle ? ou était-il jaloux d’une autre ? Ces manières arrogantes et soupçonneuses, cette façon de chasser la Caporale pour rester seul avec Adrienne, à qui il s’était mis à parler avec tant de violence, la rébellion d’Adrienne, la répugnance de celle-ci à ce qu’il fermât la porte ; le trouble dont elle était prise chaque fois qu’on faisait allusion au beau-frère absent, tout confirmait en moi cet odieux soupçon, qu’il avait quelque vue sur elle.

Eh bien ! Et pourquoi m’en irritais-je tant, moi ? Ne pouvais-je au bout du compte m’en aller de cette maison, pour ne plus que celui-ci me déplût ? Qu’est-ce qui me retenait ? Rien. Mais avec une tendre complaisance, je me souvenais qu’Adrienne m’avait appelé de la terrasse, comme pour être protégée par moi, et que enfin elle m’avait serré la main fort, fort…

J’avais laissé la jalousie ouverte, ainsi que les volets. À un certain moment, la lune, qui baissait, se montra dans le vide de ma fenêtre, comme si elle eût voulu m’épier, me surprendre encore éveillé au lit, pour me dire :

– J’ai compris, mon ami, j’ai compris ! Et toi, non ? En vérité ?



 

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