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VII: Cambio treno Pensavo:
« Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini alla terra; e - sotto - fors'anche meglio. « Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione. Ne ha finanche quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi col frastuono delle macine e con lo spolvero che vola per aria e lo veste di farina. « Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco, là, nel molino. Ma appena lo riavrò io: « - Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s'è rotta la bronzina! Signor Mattia, i denti del lubecchio! « Come quando c'era la buon'anima della mamma, e Malagna amministrava. « E mentr'io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l'altalena, e io nel mezzo a godere. « Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca di mia suocera uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore, che la vedova custodisce con la canfora e col pepe come sante reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e mandassi lei a fare il mugnajo e a star sopra al fattore. « L'aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie. Forse a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva. E io rimarrò bibliotecario, solo soletto, a Santa Maria Liberale. » Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché subito m'appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là, nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie. E godevo nel rappresentarmi la scena dell'arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa. Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe, al mio entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un'occhiata, come per dire: « To', qua di nuovo? Non t'eri rotto l'osso del collo? » Zitte loro, zitto io. Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato a sputar bile, rifacendosi dall'impiego che forse avevo perduto. M'ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia del mia sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta, per ordine della questura: e, non trovandomi là entro, morto, né avendosi d'altra parte tracce o notizie di me, quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro, cinque giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche altro sfaccendato il mio posto. Dunque, che stavo a far lì, seduto? M'ero buttato di nuovo, da me, in mezzo a una strada? Ci stéssi! Due povere donne non potevano aver l'obbligo di mantenere un fannullone, un pezzaccio da galera, che scappava via così, chi sa per quali altre prodezze, ecc., ecc. Io, zitto. Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio dispettoso, cresceva, ribolliva, scoppiava: - e io, ancora lì, zitto! A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli e mi sarei messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille: là, là, là e là... Spalancamento d'occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di mia moglie. Poi: « - Dove li hai rubati? « - ...settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno; cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque; ottantunmila settecento venticinque lire, e quaranta centesimi in tasca. » Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli, e mi sarei alzato. « - Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie! Me ne vado, e salute a voi. » Ridevo, così pensando. I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch'essi, sotto sotto. Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a' miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m'avrebbero servito, nascosti? Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì, col molino della Stìa e coi frutti del podere, dovendo pagare anche l'amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino), chi sa quant'anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora, forse, con un'offerta in contanti, me li sarei levati d'addosso a buon patto. E facevo il conto: « Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani... Chi altro c'è ? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini... Ecco tutta la mia vincita! » Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que' due giorni di perdita ! Sarei stato ricco di nuovo... ricco! Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera: l'aria pareva di cenere; e l'uggia del viaggio era insopportabile. Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valençay, messo all'incanto per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi. La tenuta attorno al castello era di duemila ottocento ettari: la più vasta di Francia. « Press'a poco, come la Stìa... » Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì, l'ambasciata marocchina, e che al ricevimento aveva assistito il segretario di Stato, barone de Richtofen. La missione, presentata poi all'imperatrice, era stata trattenuta a colazione, e chi sa come aveva divorato! Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. i doni del Lama. « I doni del Lama? » domandai a me stesso, chiudendo gli occhi, cogitabondo. « Che saranno? » Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa virtù: mi ridestai, infatti, presto, a un urto del treno che si fermava a un'altra stazione. Guardai l'orologio: eran le otto e un quarto. Fra un'oretta, dunque, sarei arrivato. Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un suicidio così, in grassetto. Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ». « Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese? » Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata putrefazione... ». A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume. « ... putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro... » Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti. « Accorsa sopra luogo... estratto dalla gora... e piantonato... fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario... » « Io? » « Accorsa sopra luogo... più tardi... per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii. » « Io?... Scomparso... riconosciuto... Mattia Pascal... » Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più quante volte quelle poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie energie vitali insorsero violentemente per protestare: come se quella notizia, così irritante nella sua impassibile laconicità, potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era pur vera per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione, permanente, schiacciante... Guardai di nuovo i miei compagni di viaggio e, quasi anch'essi, lì, sotto gli occhi miei, riposassero in quella certezza, ebbi la tentazione di scuoterli da quei loro scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli, per gridar loro che non era vero. « Possibile? » E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja. Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno s'arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l'orgasmo. Aprivo e chiudevo le mani continuamente, affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo il giornale; lo rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo a memoria, parola per parola. « Riconosciuto! Ma è possibile che m'abbiano riconosciuto?... In istato d'avanzata putrefazione... puàh! » Mi vidi per un momento, lì nell'acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile, galleggiante... Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi: « Io, no; io, no... Chi sarà stato?... mi somigliava, certo... Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia... la mia stessa corporatura... E m'han riconosciuto!... Scomparso da parecchi giorni... Eh già! Ma io vorrei sapere, vorrei sapere chi si è affrettato così a riconoscermi. Possibile che quel disgraziato là fosse tanto simile a me? vestito come me? tal quale? Ma sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m'ha pescato subito, m'ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci! - E' lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero figliuolo mio! - E si sarà messa a piangere fors'anche; si sarà pure inginocchiata accanto al cadavere di quel poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: - Ma lèvati di qua: non ti conosco -. » Fremevo. Finalmente il treno s'arrestò a un'altra stazione. Aprii lo sportello e mi precipitai giù, con l'idea confusa di fare qualche cosa, subito: un telegramma d'urgenza per smentire quella notizia. Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno... ma sì! la mia liberazione la libertà una vita nuova! Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto darle a nessuno! Ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno! libero! libero! libero! Che cercavo di più? Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento stranissimo, là su la banchina di quella stazione. Avevo lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi vidi attorno parecchia gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi scosse e mi spinse, gridandomi più forte: - Il treno riparte! - Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore! - gli gridai io, a mia volta. - Cambio treno! Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse già stata smentita; se già si fosse riconosciuto l'errore, a Miragno; se fossero saltati fuori i parenti del vero morto a correggere la falsa identificazione. Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver notizie precise e particolareggiate. Ma come procurarmele? Mi cercai nelle tasche il giornale. Lo avevo lasciato in treno. Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio. Un dubbio più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato? Ma no: « Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28... » Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma. Non c'era dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva bastarmi. Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA. Avrei trovato in quel paese altri giornali? Mi sovvenne che era domenica. A Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto, l'unico giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene una copia. Lì avrei trovato tutte le notizie particolareggiate che m'abbisognavano. Ma come sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto? Ebbene: avrei telegrafato sotto un falso nome alla redazione del giornale. Conoscevo il direttore, Miro Colzi, Lodoletta come tutti lo chiamavano a Miragno, da quando, giovinetto, aveva pubblicato con questo titolo gentile il suo primo e ultimo volume di versi. Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella richiesta di copie del suo giornale da Alenga? Certo la notizia più « interessante » di quella settimana, e perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio che la richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto? « Ma che! » pensai poi. « A Lodoletta non può venire in mente ch'io non mi sia affogato davvero. Cercherà la ragione della richiesta in qualche altro pezzo forte del suo numero d'oggi. Da tempo combatte strenuamente contro il Municipio per la conduttura dell'acqua e per l'impianto del gas. Crederà piuttosto che sia per questa sua "campagna". » Entrai nella stazione. Per fortuna, il vetturino dell'unico legnetto, quello de la posta, stava ancora lì a chiacchierare con gl'impiegati ferroviarii: il paesello era a circa tre quarti d'ora di carrozza dalla stazione, e la via era tutta in salita. Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali; e via nel buio. Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo. Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un'agenzia giornalistica: - Come dice? Nossignore! - Non si vendono giornali ad Alenga? - Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli. - C'è un albergo? - C'è la locanda del Palmentino. Era smontato da cassetta per alleggerire un po' la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: « Se egli sapesse chi porta... ». Ma ritorsi subito a me stesso la domanda: « Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po'! Come mi chiamo? » Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente! Accozzavo sillabe, cosi, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, che m'irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne... Eh, via! uno qualunque... Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: « Sì! Carlo Martello... ». E la smania ricominciava. Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente, là, dal farmacista, ch'era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno. Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d'occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena certe pàlpebre cartilaginose. - Il Foglietto? Non lo conosco. - E' un giornaluccio di provincia, settimanale, - gli spiegai. - Vorrei averlo. Il numero d'oggi, s'intende. - Il Foglietto? Non lo dieci - badava a ripetere. - E va bene! Non importa che lei non lo conosca io le pago le spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci venti copie, domani o al più presto. Si può? Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: - Il Foglietto?... Non lo conosco -. Finalmente si risolse a fare il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia. E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto. Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m'ero affrettato a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il mio nome. Così: MATTIA PASCAL Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d'inenarrabile angoscia per la desolata famiglia; costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostra cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell'animo, per la giovialità del carattere e per quella natural modestia, che gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza si era in questi ultimi tempi ridotto in umile stato. Quando, dopo il primo giorno dell'inesplicabile assenza, la famiglia impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli, zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa la porta; subito, innanti a questa porta chiusa, sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato dalla lusinga che durò parecchi dì, man mano però raffievolendosi, ch'egli si fosse allontanato dal paese per qualche sua segreta ragione. Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella! La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell'unica figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente sconvolto l'animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesi addietro, già una prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôr fine a' suoi miseri giorni, là, nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati splendori della sua casa ed il suo tempo felice. ...Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria... Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi al grondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte, lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra, presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina (lo segnaliamo all'ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli era riuscito in quella triste notte a impedire che l'infelice riducesse ad effetto il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brina pronto ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora di quel molino. Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sul luogo, quando l'altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del diletto compagno, che era andato a raggiungere la figlioletta sua. Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarlo accompagnando all'estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi e commosse parole d'addio il nostro assessore comunale cav. Pomino. Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello Roberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e col cuore lacerato diciamo per l'ultima volta al nostro buon Mattia: - Vale, diletto amico, vale! M. C. Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia. Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l'aspettassi, non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti interrompere la lettura. La « tremenda costernazione e l'inenarrabile angoscia » della mia famiglia non mi fecero ridere, né l'amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo per l'ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa, dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch'era stato come una prova, e forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e avvilimento. Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l'idea! Me n'ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi, e un altro, invece, s'era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo - oh suprema irrisione! - a subir quello che non gli apparteneva falso compianto, e finanche l'elogio funebre dell'incipriato cavalier Pomino! Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto. Ma poi pensai che quel pover'uomo era morto non certo per causa mia, e che io, facendomi vivo non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero io non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno o l'altro ricomparire. Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla loro pena per la mia morte, a tutta quella « inenarrabile angoscia », a quel « cordoglio straziante » del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio marito. Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto? La vedova Pescatore sperava ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso per quel mio barbaro suicidio, venisse in ajuto della povera vedova? Ebbene: contente loro, contentissimo io! « Morto? affogato? Una croce, e non se ne parli più! » Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di sollievo.

 

VII

JE CHANGE DE TRAIN

Je pensais :

« Je rachèterai L’Épinette, et je me retirerai là, à la campagne, à faire le meunier. On se trouve mieux près de la terre, et dessous peut-être encore mieux.

« L’air de la campagne ferait certainement du bien à ma femme. Peut-être quelques arbres perdraient-ils leurs feuilles en la voyant ; les petits oiseaux se tairaient ; espérons que la source ne tarirait pas. Et je resterais bibliothécaire, tout seulet, à Santa-Maria-Liberale. »

Ainsi pensais-je et cependant le train courait. Je ne pouvais fermer les yeux sans que m’apparût aussitôt, avec une terrible précision, le cadavre de ce jeune homme, là, dans l’allée, petit et allongé sous les grands arbres immobiles dans la matinée fraîche. Il me fallait me consoler comme cela, avec un autre cauchemar, moins sanglant, au moins matériellement : celui de ma belle-mère et de ma femme. Et je m’amusais à me représenter la scène de l’arrivée, après ces treize jours de disparition mystérieuse.

J’étais certain (il me semblait les voir) qu’elles affecteraient toutes deux, quand j’entrerais, la plus dédaigneuse indifférence. À peine un coup d’œil, comme pour dire :

– Tiens ! de nouveau ici ! Tu ne t’étais pas cassé le cou ?

Silence chez elles, silence chez moi.

Même bientôt sans doute la veuve Pescatore commencerait à cracher de la bile, forte de la perte probable de mon emploi.

J’avais en effet emporté la clef de la bibliothèque ; à la nouvelle de ma disparition, on avait dû enfoncer la porte par ordre de la questure et, ne me trouvant pas là-dedans, mort, n’ayant d’autre part ni trace ni nouvelle de moi, ces messieurs du municipe avaient peut-être attendu mon retour trois, quatre, cinq jours, une semaine ; puis ils avaient donné ma place à quelque autre propre-à-rien.

Donc, que restais-je à faire là, assis ? Je m’étais jeté de nouveau tout seul au milieu de la rue. Je n’avais qu’à y rester. Deux pauvres femmes ne pouvaient se charger d’entretenir un fainéant, un gibier de galère, qui s’enfuyait comme cela, qui sait pour quelles autres prouesses, etc.

Moi, pas un mot.

Peu à peu la bile de Marianne Dondi montait, grâce à mon silence méprisant, montait, éclatait et moi encore là, pas un mot ?

Au bout d’un certain temps, je tirerais de la poche de mon paletot mon portefeuille et je me mettrais à compter sur la table mes billets de mille : un, deux, trois, quatre…

On voit d’ici Marianne Dondi et aussi ma femme ouvrir tout grands les yeux et la bouche.

Puis :

– Où les as-tu volés !

– … Soixante-dix-sept, soixante-dix-huit, soixante-dix-neuf, quatre-vingts, quatre-vingt-un ; cinq cents, six cents, sept cents ; dix, vingt, vingt-cinq ; quatre-vingt-un mille sept cent vingt-cinq francs et quarante centimes en poche.

Tranquillement, je ramasserais les billets, je les remettrais dans le portefeuille et je me lèverais.

– Vous ne me voulez plus à la maison ? Eh bien ! mille grâces ! Je m’en vais et je vous salue.

Je riais, en pensant tout cela.

Mes compagnons de voyage m’observaient et souriaient aussi, en dessous.

Alors, pour prendre une attitude plus digne, je me mettais à penser à mes créanciers, entre lesquels je devrais partager ces billets de banque. Les cacher, je ne pouvais pas. Et puis, à quoi me serviraient-ils, cachés ?

En jouir, certainement, ces chiens-là ne m’en laisseraient pas jouir. Pour se dédommager là, avec le moulin de l’Épinette et les produits de la propriété, et l’Administration à payer (qui mettait les bouchées doubles, comme le moulin sous ses deux meules), qui sait combien d’années encore il leur faudrait attendre ? À présent, peut-être, avec une offre au comptant, je m’en débarrasserais à bon marché. Et je faisais le compte.

Mais était-ce donc pour eux que j’avais gagné, à Monte-Carlo, à la fin du compte ? Quelle rage pour ces deux jours de perte ! J’aurais été riche de nouveau… Riche !

À présent, je poussais de gros soupirs, qui faisaient mes compagnons de voyage plus que le sourire de tout à l’heure. Mais moi, je ne trouvais pas de repos. Le soir tombait ; l’air paraissait de cendre et l’ennui du voyage était insupportable.

À la première station italienne j’achetai un journal, avec l’espérance qu’il m’aiderait à m’endormir. Je le déployai et, à la lumière de l’ampoule électrique, je me mis à lire. J’eus ainsi la satisfaction de savoir que le château de Valançay, mis à l’encan pour la seconde fois, avait été adjugé au comte de Castellane pour la somme de deux millions trois cent mille francs. Le domaine attenant au château était de deux mille huit cents hectares : le plus vaste de France.

– À peu près comme l’Épinette…

Je lus que l’empereur d’Allemagne avait reçu, à Potsdam, à midi, l’ambassade marocaine, et que le secrétaire d’État, baron de Richthofen, avait assisté à la réception. La mission, présentée ensuite à l’impératrice, avait été retenue à déjeuner, et qui sait tout ce qu’elle avait dévoré !

De leur côté, le tsar et la tsarine avaient reçu à Peterhof une mission thibétaine spéciale, qui avait présenté à Leurs Majestés les présents du grand Lama.

« Les présents du Lama ? me demandais-je en fermant les yeux, songeur. Qu’est-ce que ça peut bien être ? »

Des pavots ; c’est pourquoi je m’endormis. Mais des pavots de peu de vertu ; je me réveillai, en effet, bientôt, à un choc du train qui s’arrêtait à une autre station.

Je regardai ma montre : il était huit heures un quart. Dans une petite heure donc, je serais arrivé.

J’avais toujours le journal en main, et je le retournai pour chercher en seconde page quelque présent meilleur que ceux du Lama. Mes yeux tombèrent sur un

SUICIDE

comme cela, en lettres grasses.

Je pensai tout de suite que c’était peut-être celui de Monte-Carlo, et je me hâtai de lire. Mais je m’arrêtais, surpris, à la première ligne, imprimée en tout petits caractères :

On nous télégraphie de Miragno.

– Miragno ? Qui peut bien être suicidé dans mon pays ? Je lus :

Hier, samedi 28, on a trouvé dans le bief d’un moulin un cadavre dans un état de putréfaction avancée…

Subitement un nuage passa devant mes yeux, je m’attendis à trouver à la ligne suivante le nom de ma propriété et, comme j’avais peine à lire, d’un seul œil, cette impression minuscule, je me levai debout, pour être plus près de la lampe.

… avancée. Le moulin est situé dans une propriété dite l’Épinette, à environ deux kilomètres de notre ville. Les autorités judiciaires étant accourues sur les lieux avec d’autres personnes, le cadavre fut retiré du canal pour les constatations légales. Plus tard il fut reconnu pour celui de notre…

Le cœur me remonta à la gorge et je regardai, hors de moi, mes compagnons de voyage qui dormaient tous.

Accourues sur les lieux… retiré du canal… fut reconnu pour celui de notre bibliothécaire Mathias Pascal, disparu depuis quelques jours. Cause du suicide : embarras financiers.

– Moi ?… Disparu… reconnu… Mathias Pascal…

Je relus avec une mine féroce et le cœur en tumulte je ne sais plus combien de fois ces quelques lignes. Dans la première chaleur, toutes mes énergies vitales se soulevèrent violemment pour protester : comme si cette nouvelle, si irritante dans son impassible laconisme, pouvait pour moi aussi être vraie. Mais, si elle ne l’était pas pour moi, elle l’était pour les autres ; depuis hier pesait sur moi, comme un odieux outrage, permanent, écrasant, intolérable. Je regardai de nouveau mes compagnons de voyage et, comme si eux aussi, là, sous mes yeux, avaient reposé dans cette certitude, j’eus la tentation de secouer leurs attitudes incommodes et pénibles, de les secouer, de les éveiller, pour leur crier que ce n’était pas vrai.

– Est-ce possible ?

Et je relus encore une fois l’ahurissante nouvelle.

Je ne pouvais rester en place. J’aurais voulu que le train s’arrêtât ; j’aurais voulu qu’il courût aux abîmes ; cette allure monotone, d’automate dur, sourd et pesant, me faisait croître la fièvre de minute en minute. J’ouvrais et je fermais les mains continuellement, m’enfonçant les ongles dans les paumes ; je déployais le journal ; je le repliais pour relire la nouvelle que je savais déjà par cœur, mot par mot.

– Reconnu ! Mais comment peuvent-ils m’avoir reconnu ?… Dans un état de putréfaction avancée… pouah !

Je me vis pendant un instant, là, dans l’eau verdâtre du canal, pourri, gonflé, horrible, surnageant… Dans un frisson d’effroi instinctif, je croisai les bras sur ma poitrine et, des mains, je me palpai, je m’étreignis.

Moi, non ; moi, non !… Qui était-ce bien ?… Il me ressemblait, à coup sûr… Peut-être portait-il la barbe comme moi ?… Était-il de même taille ?… Et ils m’ont reconnu ?… Disparu depuis plusieurs jours… Eh ! oui ! Mais je voudrais savoir, je voudrais savoir qui s’est hâté ainsi de me reconnaître. Est-ce possible que ce malheureux-là me ressemblât autant ? Vêtu comme moi ? Tel quel ? Mais ç’a dû être elle, elle, Marianne Dondi, la veuve Pescatore ? Oh ! elle m’a repêché tout de suite, elle m’a reconnu tout de suite ! Cela ne lui aura pas paru vrai, figurez-vous ! C’est lui ! c’est lui ! mon gendre ! ah ! pauvre Mathias ! Ah ! mon pauvre enfant ! Et elle se sera mise à pleurer peut-être ; elle se sera même agenouillée à côté du cadavre de ce malheureux, qui n’a pas pu lui allonger un coup de pied et lui crier : « Mais lève-toi donc de là : je ne te connais pas ! »

Je frémissais. Finalement, le train s’arrêta à une autre station. J’ouvris la portière et me précipitai dehors, avec l’idée confuse de faire quelque chose, tout de suite : un télégramme d’urgence pour démentir cette nouvelle.

Le saut que je fis en sortant du wagon me sauva : comme s’il m’avait fait tomber du cerveau cette stupide obsession, j’entrevis dans un éclair… mais oui ! ma libération, la liberté, une vie nouvelle !

J’avais sur moi quatre-vingt-deux mille lires, et je n’avais plus à les donner à personne ! J’étais mort, j’étais mort : je n’avais plus de dettes, je n’avais plus de femme, je n’avais plus de belle-mère : personne ! Libre ! Libre ! Libre ! Que cherchais-je de plus ?

En pensant à tout cela, je devais être resté dans une pose fort étrange, là, sur le banc de cette station ; j’avais laissé ouverte la portière du wagon. Je me vis entouré de plusieurs personnes, qui me criaient je ne sais quoi ; l’une, enfin, me secoua en me criant plus fort :

– Le train repart !

– Mais laissez-le ! Laissez-le repartir, mon cher monsieur ! lui criai-je à mon tour. Je change de train.

Un doute m’avait maintenant assailli : cette nouvelle n’avait-elle pas déjà été démentie ? N’avait-on pas déjà reconnu l’erreur, à Miragno ? Les parents du vrai mort n’avaient-ils pas fait leur apparition pour corriger la fausse identification.

Avant de me réjouir ainsi, il me fallait bien m’assurer, avoir des détails précis. Mais comment me les procurer ?

Je cherchai le journal dans mes poches. Je l’avais laissé dans le train. Je me retournai pour regarder la voie déserte, qui se déroulait avec des places brillantes dans la nuit silencieuse, et je me sentis comme égaré dans le vide, dans cette misérable petite gare de passage. Un doute plus fort m’assaillit alors : peut-être que j’avais rêvé ?

Mais non !

On nous télégraphie de Miragno. Hier samedi 28…

Voilà ; je pouvais réciter par cœur, mot pour mot, le télégramme. Il n’y avait pas de doute ! Pourtant, oui, c’était trop peu : cela ne pouvait me suffire.

Je regardai la gare ; je lus le nom : Alenga.

Trouverais-je dans ce pays d’autres journaux ? Il me revint que c’était dimanche. À Miragno, donc, ce matin, avait paru Le Feuillet, l’unique journal qui s’y imprimât. À tout prix, il me fallait m’en procurer un exemplaire. Là, je trouverais tous les renseignements détaillés dont j’avais besoin. Mais comment espérer trouver à Alenga Le Feuillet ? Eh bien ! je télégraphierais sous un faux nom à la rédaction du journal. Je connaissais le directeur, Miro Colzi, « l’Alouette », comme tout le monde l’appelait à Miragno, depuis que, tout jeune homme, il avait publié sous ce joli titre son premier et dernier volume de vers.

Mais pour « l’Alouette », n’allait-ce pas être un événement que cette demande d’exemplaires de son journal à Alenga ? Certes, la nouvelle la plus intéressante de cette semaine, le morceau de résistance de ce numéro, devait être mon suicide. N’allais-je pas m’exposer, avec ma requête insolite, au risque de faire naître en lui quelque soupçon ?

« Mais quoi ! pensai-je ensuite. Il ne peut venir à l’esprit de « l’Alouette » que je ne me sois pas noyé pour de bon. Il cherchera la raison de la demande dans quelque autre morceau à effet de son numéro d’aujourd’hui. Depuis longtemps il combat vaillamment contre la municipalité pour l’adduction des eaux et l’installation du gaz. Il croira plutôt que c’est pour la campagne qu’il mène à ce sujet. »

J’entrai dans la gare.

Par une chance, le conducteur de l’unique voiture, celle de la Poste, était encore là à bavarder avec les employés : le bourg était à environ trois quarts d’heure de voiture de la gare et la route était toute en côte.

Je montai dans cette carriole toute décrépite et disloquée sans lanternes, et fouette cocher, dans la nuit.

J’avais à penser à bien des choses. Pourtant, de temps en temps, la violente impression reçue à la lecture de cette nouvelle qui me concernait de si près, se réveillait en moi dans cette solitude noire et inconnue, et je me sentais alors, pendant un instant, dans le vide, comme tout à l’heure à la vue de la voie déserte ; je me sentais peureusement dégagé de la vie, survivant à moi-même, perdu, dans l’attente de vivre au-delà de la mort, sans entrevoir encore de quelle façon.

Je demandai, pour me distraire, au voiturier, s’il y avait à Alenga une agence de journaux.

– Comment dites-vous ? Non, monsieur !

– On ne vend pas de journaux à Alenga ?

– Ah ! si, monsieur, on en vend chez le pharmacien, Grottanelli.

– Il y a un hôtel ?

– Il y a l’auberge du Petit Moulin.

Il était descendu du siège pour alléger un peu la vieille rosse qui soufflait, les naseaux à terre. Je le distinguais à peine. À un certain moment, il alluma sa pipe et je le vis, alors, comme dans des éclairs, et je pensai :

« S’il savait qui il porte… »

Mais je me rétorquai tout de suite la question :

« Qui il porte ? Je ne le sais même plus, moi. Qui suis-je maintenant ? Il faut que j’y pense. Un nom, au moins, il faut que je me donne un nom tout de suite, pour signer le télégramme et ne pas me trouver ensuite embarrassé si, à l’auberge, on me le demande. Il me suffira de penser simplement au nom pour le moment. Voyons un peu ! Comment est-ce que je m’appelle ? »

Je n’aurais jamais supposé que le choix d’un nom et d’un prénom dût me coûter tant de peine et me tourmenter si fort. C’était peut-être la secousse reçue et la préoccupation qui m’avaient rendu le cerveau si aride. Le nom de famille, surtout ! J’accouplais des syllabes, comme cela, sans penser, et il venait de certains noms, comme : Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, qui m’irritaient encore davantage les nerfs. Je n’y trouvais aucune propriété, aucun sens. Comme si, au fond, les noms devaient en avoir… Eh ! voyons, n’importe lequel… Martoni, par exemple. Pourquoi pas ? Charles Martoni… Ah ! voilà qui est fait ! Mais peu après, je haussais les épaules : Oui ! Charles Martel… Et l’obsession recommençait.

J’arrivai au pays sans en avoir arrêté aucun. Heureusement, là, chez le pharmacien, qui était en même temps receveur des postes et du télégraphe, droguiste, papetier, marchand de journaux, et idiot par-dessus le marché, il n’y en eut pas besoin. J’achetai un exemplaire des quelques journaux qu’il recevait ; journaux de Gênes : le Caffaro et le XIXe Siècle. Je lui demandai ensuite si je pouvais avoir Le Feuillet de Miragno.

Il avait une face de chouette, ce Grottanelli, avec une paire d’yeux tout ronds, comme en verre, sur lesquels il abaissait de temps en temps, comme avec peine, des paupières cartilagineuses ; il avait un nez crochu qui lui arrivait jusque sur le menton, et il était boiteux d’un pied.

– Le Feuillet ? Connais pas.

– C’est un petit journal de province, hebdomadaire, lui expliquai-je. Je voudrais l’avoir. Le numéro d’aujourd’hui, naturellement.

– Connais pas ! répéta-t-il.

– Eh ! très bien. Mais je vais vous payer les frais d’un mandat télégraphique à la rédaction. Je voudrais en avoir dix, vingt numéros, demain ou au plus vite. Est-ce possible ?

Il ne répondait pas : les yeux fixes, sans regard. Il répétait : « Le Feuillet ?… Connais pas. » À la fin, il se décida à faire le mandat télégraphique sous ma dictée, indiquant pour la réponse sa pharmacie.

Et le jour suivant, après une nuit d’insomnie, bouleversée par un afflux tempétueux de pensées, là, dans l’auberge du Petit Moulin, je reçus quinze numéros du Feuillet.

Dans les deux journaux de Gênes que, à peine resté seul, je m’étais empressé de lire, je n’avais pas trouvé un mot sur l’affaire. Les mains me tremblaient en dépliant Le Feuillet. En première page, rien. Je cherchai dans les deux du milieu, et tout de suite me sauta aux yeux un signe de deuil en haut de la troisième page, et dessous, en grosses lettres, mon nom, comme cela :

MATHIAS PASCAL

On n’avait point de nouvelles de lui depuis quelques jours, jours d’effroyable consternation et d’inénarrable angoisse pour sa famille désolée. Cette consternation et cette angoisse furent partagées par la meilleure partie de nos concitoyens. On l’aimait et on l’estimait pour la bonté de son âme, pour son caractère jovial et pour sa modestie naturelle, qui lui avaient permis de supporter sans avilissement et avec résignation les destins contraires.

Après le premier jour de son inexplicable absence, sa famille, tout émue se rendit à la bibliothèque Boccamazza, où cet employé plein de zèle restait presque tout le jour à enrichir par de savantes lectures sa vive intelligence. On trouva la porte close. Aussitôt, devant cette porte close, surgit, noir et tremblant, le soupçon, soupçon bientôt chassé par l’espérance qui dura plusieurs jours, puis s’affaiblit pourtant peu à peu. Mathias s’était éloigné du pays pour quelque raison secrète.

Mais, hélas, il fallait que la vérité fût celle-là !

La mort récente d’une mère adorée et en même temps d’une fillette unique, après la perte des biens paternels, avait profondément bouleversé l’âme de notre pauvre ami. Tant il y a que, trois mois environ auparavant, déjà une première fois, à la faveur de la nuit, il avait été tenté de mettre fin à ses misérables jours, là dans ce même bief du moulin, qui lui rappelait les splendeurs passées de sa maison et le temps de son bonheur.

… Il n’est douleur plus grande

Que de se souvenir de la félicité

Dans les temps de misère.

C’est ce que nous racontait, les larmes aux yeux et sanglotant devant le cadavre ruisselant et décomposé, un vieux meunier, fidèle et dévoué à la famille de ses anciens maîtres. La nuit était tombée, lugubre : une lanterne rouge avait été déposée là, par terre, près du cadavre, veillé par deux carabiniers royaux, et le vieux Philippe Brina (nous le signalons à l’admiration des gens de bien) parlait et pleurait avec nous. Il avait réussi dans cette triste nuit à empêcher que le malheureux mît son projet désespéré à exécution : mais Philippe Brina ne se trouva pas là une seconde fois, prêt à le retenir. Et Mathias Pascal séjourna peut-être toute une nuit et la moitié du jour dans le bief du moulin.

Nous ne tenterons même pas de décrire la scène poignante qui s’ensuivit sur le lieu même, quand, avant-hier, vers le soir, la veuve inconsolable se trouva en présence de la misérable dépouille méconnaissable de son cher compagnon, qui était allé rejoindre sa petite fille.

Tout le pays a pris part à son deuil et accompagna le cadavre à sa dernière demeure, où quelques paroles d’adieu ému lui furent adressées par notre assesseur communal, le cher Pomino.

Nous envoyons à la pauvre famille plongée dans un si grand deuil, au frère du défunt, Robert, éloigné de Miragno, nos condoléances les plus sincères. Le cœur déchiré, nous disons pour la dernière fois à notre bon Mathias : Adieu, bien cher ami, adieu !

M. C.

Même sans ces deux initiales, j’aurais reconnu « l’Alouette » pour l’auteur de la nécrologie.

Mais je dois confesser que la vue de mon nom imprimé là, sous cette raie noire, loin de me réjouir, m’accéléra tellement les battements du cœur qu’après quelques lignes je fus obligé d’interrompre la lecture. L’« effroyable consternation et l’inénarrable angoisse » de ma famille ne me firent pas rire, ni l’amour et l’estime de mes concitoyens, ni mon zèle pour mon emploi. Le souvenir de cette triste nuit à l’Épinette, après la mort de ma mère et de ma petite, qui avait été comme la preuve la plus forte de mon suicide, me surprit d’abord, comme une participation imprévue du hasard, puis me causa du remords et de la honte.

Eh ! non ! je ne m’étais pas tué pour la mort de ma mère et de ma petite fille, bien que, peut-être, cette nuit-là, j’en eusse eu l’idée ! Je m’étais enfui, c’est vrai, en désespéré ; mais voilà que maintenant je revenais d’une maison de jeu, où la Fortune m’avait souri et continuait à me sourire de la manière la plus étrange. Un autre s’était tué à ma place, un étranger certainement, à qui je volais les pleurs de ses parents lointains et de ses amis, à qui j’imposais l’éloge funèbre du pommadé chevalier Pomino !

Telle fut ma première impression à la lecture de ma nécrologie sur Le Feuillet.

Ensuite je pensai que ce pauvre homme était mort, non pas pour l’amour de moi, et qu’en me montrant vivant, je ne pourrais le faire revivre. Je pensai qu’en profitant de sa mort, non seulement je ne frustrais nullement ses parents, mais même je leur rendais service. Pour eux, en effet, ce mort, ce n’était pas lui, mais moi, et ils pouvaient le croire disparu et espérer encore, espérer le voir reparaître un jour ou l’autre.

Restaient ma femme et ma belle-mère. Devais-je vraiment croire à leur chagrin, à toute cette « inénarrable angoisse » du funèbre morceau à effet de « l’Alouette » ? Il suffisait, parbleu ! d’ouvrir l’œil à ce pauvre mort pour s’apercevoir que ce n’était pas moi. Une épouse, à moins de le faire exprès, ne peut ainsi confondre un étranger avec son propre mari.

Elles s’étaient empressées de me reconnaître dans ce mort ! La veuve Pescatore espérait maintenant que Malagna, ému et peut-être non sans remords pour ce suicide barbare, viendrait en aide à la pauvre veuve, sa nièce ? Eh bien ! s’ils étaient contents, je l’étais plus encore !

« Mort ? Noyé ? Une croix et qu’on n’en parle plus ! »

Je me levai, m’étirai et poussai un long soupir de soulagement.


 

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