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X: Acquasantiera e portacenere
Pochi giorni dopo ero a Roma, per prendervi dimora. Perché a Roma e non altrove? La ragione vera la vedo adesso, dopo tutto quello che m'è occorso, ma non la dirò per non guastare il mio racconto con riflessioni che, a questo punto, sarebbero inopportune. Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me. La scelta della casa, cioè d'una cameretta decente in qualche via tranquilla, presso una famiglia discreta, mi costò molta fatica. Finalmente la trovai in via Ripetta, alla vista del fiume. A dir vero, la prima impressione che ricevetti della famiglia che doveva ospitarmi fu poco favorevole; tanto che, tornato all'albergo, rimasi a lungo perplesso se non mi convenisse di cercare ancora. Su Ia porta, al quarto piano, c'erano due targhette: PALEARI di qua, PAPIANO di là; sotto a questa, un biglietto da visita, fissato con due bullette di rame, nel quale si leggeva: Silvia Caporale. Venne ad aprirmi un vecchio su i sessant'anni (Paleari? Papiano?), in mutande di tela, coi piedi scalzi entro un pajo di ciabatte rocciose, nudo il torso roseo, ciccioso, senza un pelo, le mani insaponate e con un fervido turbante di spuma in capo. - Oh scusi! - esclamò. - Credevo che fosse la serva... Abbia pazienza mi trova cosi... Adriana! Terenzio! E subito, via! Vedi che c'è qua un signore.. Abbia pazienza un momentino; favorisca... Che cosa desidera? - S'affitta qua una camera mobiliata? - Sissignore. Ecco mia figlia: parlerà con lei. Sù, Adriana, la camera! Apparve, tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli, dolci e mesti, come tutto il volto. Adriana, come me! « Oh, guarda un po'! » pensai. « Neanche a farlo apposta! - Ma Terenzio dov'è? - domandò l'uomo dal turbante di spuma. - Oh Dio, papà, sai bene che è a Napoli, da jeri. Ritìrati! Se ti vedessi... - gli rispose la signorinetta mortificata, con una vocina tenera che, pur nella lieve irritazione, esprimeva la mitezza dell'indole. Quegli si ritirò, ripetendo: - Ah già! ah già! -, strascicando le ciabatte e seguitando a insaponarsi il capo calvo e anche il grigio barbone. Non potei fare a meno di sorridere, ma benevolmente, per non mortificare di più la figliuola. Ella socchiuse gli occhi, come per non vedere il mio sorriso. Mi parve dapprima una ragazzetta; poi, osservando bene l'espressione del volto, m'accorsi ch'era già donna e che doveva perciò portare, se vogliamo, quella veste da camera che la rendeva un po' goffa, non adattandosi al corpo e alle fattezze di lei così piccolina. Vestiva di mezzo lutto. Parlando pianissimo e sfuggendo di guardarmi (chi sa che impressione le feci in prima!), m'introdusse, attraverso un corridojo bujo, nella camera che dovevo prendere in affitto. Aperto l'uscio, mi sentii allargare il petto, all'aria, alla luce che entravano per due ampie finestre prospicienti il fiume. Si vedeva in fondo in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant'Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest'altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi. In grazia di quella spaziosa veduta presi in affitto la camera, che era per altro addobbata con graziosa semplicità, di tappezzeria chiara, bianca e celeste. - Questo terrazzino qui accanto, - volle dirmi la ragazzetta in veste da camera, - appartiene pure a noi, almeno per ora. Lo butteranno giù, dicono, perché fa aggetto. - Fa... che cosa? - Aggetto: non si dice così? Ma ci vorrà tempo prima che sia finito il Lungotevere. Sentendola parlare piano, con tanta serietà, vestita a quel modo, sorrisi e dissi: - Ah sì? Se ne offese. Chinò gli occhi e si strinse un po' il labbro tra i denti. Per farle piacere, allora, le parlai anch'io con gravità: - E scusi, signorina: non ci sono bambini, è vero, in casa? Scosse il capo senza aprir bocca. Forse nella mia domanda sentì ancora un sapor d'ironia, ch'io però non avevo voluto metterci. Avevo detto bambini e non bambine. Mi affrettai a riparare un'altra volta. - E... dica, signorina: loro non affittano altre camere, è vero? - Questa è la migliore, - mi rispose, senza guardarmi. - Se non le accomoda... - No no... Domandavo per sapere se... - Ne affittiamo un'altra, - disse allora ella, alzando gli occhi con aria d'indifferenza forzata. - Di là, posta sul davanti... su la via. E occupata da una signorina che sta con noi ormai da due anni: dà lezioni di pianoforte... non in casa. Accennò, così dicendo, un sorriso lieve lieve, e mesto. Aggiunse: - Siamo io, il babbo e mio cognato... - Paleari? - No: Paleari è il babbo; mio cognato si chiama Terenzio Papiano. Deve però andar via, col fratello che per ora sta anche lui qua con noi. Mia sorella è morta... da sei mesi. Per cangiar discorso, le domandai che pigione avrei dovuto pagare; ci accordammo subito; le domandai anche se bisognava lasciare una caparra. - Faccia lei, - mi rispose. - Se vuole piuttosto lasciare il nome... Mi tastai in petto, sorridendo nervosamente, e dissi: - Non ho... non ho neppure un biglietto da visita... Mi chiamo Adriano, sì, appunto: ho sentito che si chiama Adriana anche lei, signorina. Forse le farà dispiacere... - Ma no! Perché? - fece lei, notando evidentemente il mio curioso imbarazzo e ridendo questa volta come una vera bambina. Risi anch'io e soggiunsi: - E allora, se non le dispiace, mi chiamo Adriano Meis: ecco fatto! Potrei alloggiare qua stasera stessa? O tornerò meglio domattina... Ella mi rispose: - Come vuole, - ma io me ne andai con l'impressione che le avrei fatto un gran piacere se non fossi più tornato. Avevo osato nientemeno di non tenere nella debita considerazione quella sua veste da camera. Potei vedere però e toccar con mano, pochi giorni dopo, che la povera fanciulla doveva proprio portarla, quella veste da camera, di cui ben volentieri, forse, avrebbe fatto a meno. Tutto il peso della casa era su le sue spalle, e guaj se non ci fosse stata lei! Il padre, Anselmo Paleari, quel vecchio che mi era venuto innanzi con un turbante di spuma in capo, aveva pure così, come di spuma, il cervello. Lo stesso giorno che entrai in casa sua, mi si presentò, non tanto - disse - per rifarmi le scuse del modo poco decente in cui mi era apparso la prima volta, quanto per il piacere di far la mia conoscenza, avendo io l'aspetto d'uno studioso o d'un artista, forse: - Sbaglio? - Sbaglia. Artista... per niente ! studioso... così così... Mi piace leggere qualche libro. - Oh, ne ha di buoni! - fece lui, guardando i dorsi di quei pochi che avevo già disposti sul palchetto della scrivania. - Poi, qualche altro giorno, le mostrerò i miei, eh? Ne ho di buoni anch'io. Mah! E scrollò le spalle e rimase lì, astratto, con gli occhi invagati, evidentemente senza ricordarsi più di nulla, né dov'era né con chi era; ripeté altre due volte: - Mah!... Mah!, - con gli angoli della bocca contratti in giù, e mi voltò le spalle per andarsene, senza salutarmi. Ne provai, lì per lì, una certa meraviglia; ma poi, quando egli nella sua camera mi mostrò i libri, come aveva promesso, non solo quella piccola distrazione di mente mi spiegai, ma anche tant'altre cose. Quei libri recavano titoli di questo genere: La Mort et l'au-delà - L'homme et ses corps - Les sept principes de l'homme - Karma - La clef de la Théosophie - A B C de la Théosophie - La doctrine secrète - Le Plan Astral - ecc., ecc. Era ascritto alla scuola teosofica il signor Anselmo Paleari. Lo avevano messo a riposo, da caposezione in non so qual Ministero, prima del tempo, e lo avevano rovinato, non solo finanziariamente, ma anche perché libero e padrone del suo tempo, egli si era adesso sprofondato tutto ne' suoi fantastici studii e nelle sue nuvolose meditazioni, astraendosi più che mai dalla vita materiale. Per lo meno mezza la sua pensione doveva andarsene nell'acquisto di quei libri. Già se n'era fatta una piccola biblioteca. La dottrina teosofica però non doveva soddisfarlo interamente. Certo il tarlo della critica lo rodeva, perché, accanto a quei libri di teosofia, aveva anche una ricca collezione di saggi e di studii filosofici antichi e moderni e libri d'indagine scientifica. In questi ultimi tempi si era dato anche a gli esperimenti spiritici. Aveva scoperto nella signorina Silvia Caporale, maestra di pianoforte, sua inquilina, straordinarie facoltà medianiche, non ancora bene sviluppate, per dire la verità, ma che si sarebbero senza dubbio sviluppate, col tempo e con l'esercizio, fino a rivelarsi superiori a quelle di tutti i medium più celebrati. Io, per conto mio, posso attestare di non aver mai veduto in urla faccia volgarmente brutta, da maschera carnevalesca, un pajo d'occhi più dolenti di quelli della signorina Silvia Caporale. Eran nerissimi, intensi, ovati, e davan l'impressione che dovessero aver dietro un contrappeso di piombo, come quelli delle bambole automatiche. La signorina Silvia Caporale aveva più di quarant'anni e anche un bel pajo di baffi, sotto il naso a pallottola sempre acceso. Seppi di poi che questa povera donna era arrabbiata d'amore, e beveva; si sapeva brutta, ormai vecchia e, per disperazione, beveva. Certe sere si riduceva in casa in uno stato veramente deplorevole: col cappellino a sghimbescio, la pallottola del naso rossa come una carota e gli occhi semichiusi, più dolenti che mai. Si buttava sul letto, e subito tutto il vino bevuto le riveniva fuori trasformato in un infinito torrente di lagrime. Toccava allora alla povera piccola mammina in veste da camera vegliarla, confortarla fino a tarda notte: ne aveva pietà, pietà che vinceva la nausea: la sapeva sola al mondo e infelicissima, con quella rabbia in corpo che le faceva odiar la vita, a cui già due volte aveva attentato; la induceva pian piano a prometterle che sarebbe stata buona che non l'avrebbe fatto più; e sissignori, il giorno appresso se la vedeva comparire tutta infronzolata e con certe mossette da scimmia, trasformata di punto in bianco in bambina ingenua e capricciosa. Le poche lire che le avveniva di guadagnare di tanto in tanto facendo provar le canzonette a qualche attrice esordiente di caffè-concerto, se n'andavano così o per bere o per infronzolarsi, ed ella non pagava né l'affitto della camera né quel po' che le davano da mangiare là in famiglia. Ma non si poteva mandar via. Come avrebbe fatto il signor Anselmo Paleari per i suoi esperimenti spiritici? C'era in fondo, però, un'altra ragione. La signorina Caporale, due anni avanti, alla morte della madre, aveva smesso casa e, venendo a viver lì dai Paleari, aveva affidato circa sei mila lire, ricavate dalla vendita dei mobili, a Terenzio Papiano, per un negozio che questi le aveva proposto, sicurissimo e lucroso: le sei mila lire erano sparite. Quando ella stessa, la signorina Caporale, lagrimando, mi fece questa confessione, io potei scusare in qualche modo il signor Anselmo Paleari, il quale per quella sua follia soltanto m'era parso dapprima che tenesse una donna di tal risma a contatto della propria figliuola. E' vero che per la piccola Adriana, che si dimostrava così istintivamente buona e anzi troppo savia, non v'era forse da temere: ella infatti più che d'altro si sentiva offesa nell'anima da quelle pratiche misteriose del padre, da quell'evocazione di spiriti per mezzo della signorina Caporale. Era religiosa la piccola Adriana. Me ne accorsi fin dai primi giorni per via di un'acquasantiera di vetro azzurro appesa a muro sopra il tavolino da notte, accanto al mio letto. M'ero coricato con la sigaretta in bocca, ancora accesa, e m'ero messo a leggere uno di quei libri del Paleari; distratto, avevo poi posato il mozzicone spento in quell'acquasantiera. Il giorno dopo, essa non c'era più. Sul tavolino da notte, invece, c'era un portacenere. Volli domandarle se la avesse tolta lei dal muro; ed ella, arrossendo leggermente, mi rispose: - Scusi tanto, m'è parso che le bisognasse piuttosto un portacenere. - Ma c'era acqua benedetta nell'acquasantiera? - C'era. Abbiamo qui dirimpetto la chiesa di San Rocco... E se n'andò. Mi voleva dunque santo quella minuscola mammina, se al fonte di San Rocco aveva attinto l'acqua benedetta anche per la mia acquasantiera? Per la mia e per la sua, certamente. Il padre non doveva usarne. E nell'acquasantiera della signorina Caporale, seppure ne aveva, vin santo, piuttosto. Ogni minimo che - sospeso come già da un pezzo mi sentivo in un vuoto strano - mi faceva ora cadere in lunghe riflessioni. Questo dell'acquasantiera m'indusse a pensare che, fin da ragazzo, io non avevo più atteso a pratiche religiose, né ero più entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala morte senza conforti religiosi. Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che mi conoscevano, io mi ero tolto - bene o male - il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte. Chi sa quanti, a Miragno, dicevano: - Beato lui, alla fine! Comunque sia, ha risolto il problema. E non avevo risolto nulla, io, intanto. Mi trovavo ora coi libri d'Anselmo Paleari tra le mani, e questi libri m'insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione, nei « gusci » del Kâmaloka, specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral (premier degré du monde invisible, d'après la théosophie), raffigura come eccitati da ogni sorta d'appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch'essi però ignorano d'aver perduto. « Oh, guarda un po', » pensavo, « ch'io quasi quasi potrei credere che mi sia davvero affogato nel molino della Stìa e che intanto mi illuda di vivere ancora. » Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s'attaccò. Non che credessi veramente di esser morto: non sarebbe stato un gran male, giacché il forte è morire, e, appena morti, non credo che si possa avere il tristo desiderio di ritornare in vita. Mi accorsi tutt'a un tratto che dovevo proprio morire ancora: ecco il male! Chi se ne ricordava più? Dopo il mio suicidio alla Stìa, io naturalmente non avevo veduto più altro, innanzi a me, che la vita. Ed ecco qua, ora: il signor Anselmo Paleari mi metteva innanzi di continuo l'ombra della morte. Non sapeva più parlar d'altro, questo benedett'uomo! Ne parlava però con tanto fervore e gli scappavan fuori di tratto in tratto, nella foga del discorso, certe immagini e certe espressioni così singolari, che, ascoltandolo, mi passava subito la voglia di cavarmelo d'attorno e d'andarmene ad abitare altrove. Del resto, la dottrina e la fede del signor Paleari, tuttoché mi sembrassero talvolta puerili, erano in fondo confortanti; e, poiché purtroppo mi s'era affacciata l'idea che, un giorno o l'altro, io dovevo pur morire sul serio, non mi dispiaceva di sentirne parlare a quel modo. - C'è logica? - mi domandò egli un giorno, dopo avermi letto un passo di un libro del Finot, pieno d'una filosofia così sentimentalmente macabra, che pareva il sogno d'un becchino morfinomane, su la vita nientemeno dei vermi nati dalla decomposizione del corpo umano. - C'è logica? Materia, sì materia: ammettiamo che tutto sia materia. Ma c'è forma e forma, modo e modo, qualità e qualità: c'è il sasso e l'etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo, c'è l'unghia, il dente, il pelo, e c'è perbacco il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia anch'essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l'unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l'etere, o che so io. L'etere, sì, l'ammettete come ipotesi, e l'anima no? C'è logica? Materia, sissignore. Segua il mio ragionamento, e veda un po' dove arrivo, concedendo tutto. Veniamo alla Natura. Noi consideriamo adesso l'uomo come l'erede di una serie innumerevole di generazioni, è vero? come il prodotto di una elaborazione ben lenta della Natura. Lei, caro signor Meis, ritiene che sia una bestia anch'esso, crudelissima bestia e, nel suo insieme, ben poco pregevole? Concedo anche questo, e dico: sta bene, l'uomo rappresenta nella scala degli esseri un gradino non molto elevato; dal verme all'uomo poniamo otto, poniamo sette, poniamo cinque gradini. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all'uomo; s'è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia, signor Meis, e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt'a un tratto, pàffete, torna zero? C'è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l'anima mia, per bacco! materia anch'essa, sissignore, chi vi dice di no? ma non come il mio naso o come il mio piede. C'è logica? - Scusi, signor Paleari, - gli obbiettai io, - un grand'uomo passeggia, cade, batte la testa, diventa scemo. Dov'è l'anima? Il signor Anselmo restò un tratto a guardare, come se improvvisamente gli fosse caduto un macigno innanzi ai piedi. - Dov'è l'anima? - Sì, lei o io, io che non sono un grand'uomo, ma che pure... via, ragiono: passeggio, cado, batto la testa, divento scemo. Dov'è l'anima? Il Paleari giunse le mani e, con espressione di benigno compatimento, mi rispose: - Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis? - Per un'ipotesi... - Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente. Prendiamo i vecchi che, senza bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi. Ebbene, che vuol dire? Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l'anima, per dimostrar così che l'estinzione dell'uno importi l'estinzione dell'altra? Ma scusi! Immagini un po' il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell'anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi come per esempio Sua Santità Leone XIII! E dunque? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore? - Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l'anima? - Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza l'anima s'appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento, pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un'altra questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là? E' un fatto, questo, un fatto, una prova reale. - Dicono: l'istinto della conservazione... - Ma nossignore, perché me n'infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla; ma se mi provano, perdiana, che - dopo averla sopportata per altri cinque o sei o dieci anni - io non avrò pagato lo scotto in qualche modo, e che tutto finirà lì ma io la butto via oggi stesso, in questo stesso momento: e dov'è allora l'istinto della conservazione? Mi conservo unicamente perché sento che non può finire cosi! Ma altro è l'uomo singolo, dicono, altro è l'umanità. L'individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un po'! Come se l'umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant'anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l'umanità? Ma se l'umanità anch'essa un giorno dovrà finire? Pensi un po': e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente? E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste... Guarigione dell'astro, è vero? come ha detto lei l'altro giorno. Va bene: guarigione; ma bisogna vedere in che senso. Il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che vuole occuparsi della vita soltanto. - Eh, - sospirai io, sorridendo, - poiché dobbiamo vivere... - Ma dobbiamo anche morire! - ribatté il Paleari. - Capisco; perché però pensarci tanto? - Perché? ma perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte. - Col bujo che ci fa? - Bujo? Bujo per lei! Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l'olio puro dell'anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato! Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bisogno di quell'altra che ci faccia un po' di luce per la morte. Guardi, io provo anche, certe sere, ad accendere un certo lanternino col vetro rosso; bisogna ingegnarsi in tutti i modi, tentar comunque di vedere. Per ora, mio genero Terenzio è a Napoli. Tornerà fra qualche mese, e allora la inviterò ad assistere a qualche nostra modesta sedutina, se vuole. E chi sa che quel lanternino... Basta, non voglio dirle altro. Come si vede, non era molto piacevole la compagnia di Anselmo Paleari. Ma, pensandoci bene potevo io senza rischio, o meglio, senza vedermi costretto a mentire, aspirare a qualche altra compagnia men lontana dalla vita? Mi ricordavo ancora del cavalier Tito Lenzi. Il signor Paleari invece non si curava di saper nulla di me, pago dell'attenzione ch'io prestavo a' suoi discorsi. Quasi ogni mattina, dopo la consueta abluzione di tutto il corpo, mi accompagnava nelle mie passeggiate; andavamo o sul Gianicolo o su l'Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte. « Ed ecco che bel guadagno ho fatto io, » pensavo, « a non esser morto davvero! » Tentavo qualche volta di trarlo a parlar d'altro; ma pareva che il signor Paleari non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno; camminava quasi sempre col cappello in mano; a un certo punto, lo alzava come per salutar qualche ombra ed esclamava: - Sciocchezze! Una sola volta mi rivolse, all'improvviso, una domanda particolare: - Perché sta a Roma lei, signor Meis? Mi strinsi ne le spalle e gli risposi: - Perché mi piace di starci... - Eppure è una città triste, - osservò egli, scotendo il capo. - Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. - Morta anche Roma? - esclamai, costernato. - Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri cosi spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un'altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? Guardi, signor Meis. Mia figlia Adriana mi ha detto dell'acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse dalla camera, quell'acquasantiera; ma, l'altro giorno, le cadde di mano e si ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, su la mia scrivania, adibita all'uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l'identico. I papi ne avevano fatto - a modo loro, s'intende - un'acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D'ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci dà.

 

X

LE BÉNITIER ET LE CENDRIER

Quelques jours après, j’étais à Rome, décidé à y fixer ma demeure.

Rome me plut mieux que toute autre ville, et puis elle me paraissait plus apte à donner l’hospitalité avec indifférence, parmi tant d’étrangers, à un étranger comme moi.

Le choix d’une maison, c’est-à-dire d’une chambrette décente, dans quelque rue tranquille, chez une famille discrète, me coûta beaucoup de peine. Finalement, je la trouvai, rue Ripetta, en vue du fleuve. La première impression que je reçus de la famille qui devait me recevoir, fut si défavorable, que, revenu à l’hôtel, je restai longtemps perplexe, me demandant s’il ne me valait pas mieux chercher encore.

Sur la porte, au quatrième étage, étaient deux plaques : Paleari ici, Papiano là ; au-dessous de la dernière, une carte de visite, fixée avec deux punaises de cuivre, sur laquelle on lisait : Silvia Caporale.

Ce fut un vieillard d’une soixantaine d’années qui vint m’ouvrir (Paleari ? Papiano ?), en caleçon de toile, les pieds nus dans une paire de savates crasseuses, les mains ensavonnées et avec un turban d’écume sur la tête.

– Oh ! pardon ! s’écria-t-il. Je croyais que c’était la femme… Prenez patience : vous me trouvez si… Adrienne ! Térence ! Allons ! vite ! Voyez qu’il y a un monsieur… Prenez patience un petit moment, je vous en prie… Qu’y a-t-il pour votre service ?

– Il y a ici une chambre meublée à louer ?

– Oui, monsieur ! Voici ma fille : vous lui parlerez. Allons, Adrienne ! la chambre !

Apparut alors, toute confuse, une toute petite demoiselle, blonde, pâle, aux yeux clairs, doux et tristes, comme tout son visage. Adrienne, comme moi ! « Oh ! voyez un peu ! pensai-je. Sans le faire exprès ! »

– Mais où est Térence ? demanda l’homme au turban d’écume.

– Mon Dieu ! papa, tu sais bien qu’il est à Naples, depuis hier. Retire-toi, lui répondit la fillette, mortifiée, avec une petite voix tendre qui, malgré sa légère irritation, exprimait la douceur de sa nature.

Il se retira, en traînant ses savates et continuant à savonner sa tête chauve et aussi sa barbe grise.

Je ne pus m’empêcher de sourire, mais avec bienveillance, pour ne pas mortifier davantage la jeune fille. Elle baissa les yeux pour ne pas voir mon sourire.

Tout d’abord, elle me parut une gamine ; puis, en observant mieux l’expression de son visage, je m’aperçus qu’elle était déjà femme. Elle portait une robe de chambre qui la rendait un peu gauche et s’adaptait mal aux formes d’un si petit corps. Elle était en demi-deuil.

En parlant tout bas et en évitant de me regarder (qui sait quelle impression je lui fis d’abord ?), elle m’introduisit, à travers un corridor obscur, dans la chambre que je devais louer. La porte ouverte, je sentis ma poitrine s’élargir à l’air, à la lumière qui entraient par deux grandes fenêtres regardant le fleuve. On voyait au fond le mont Mario, le pont Marguerite et tout le nouveau quartier des Prati jusqu’au château Saint-Ange ; on dominait le vieux pont de Ripetta et le nouveau qu’on construisait à côté ; plus loin, le pont Humbert et toutes les vieilles maisons de Tordinona qui suivaient l’ample courbe du fleuve ; au fond, de l’autre côté, on découvrait les vertes hauteurs du Janicule, avec la grande fontaine de Saint-Pierre in Montorio, et la statue équestre de Garibaldi.

Rien que pour l’étendue de cette vue, je louai la chambre, qui était d’ailleurs garnie avec une gracieuse simplicité, d’une tapisserie claire, blanche et bleue.

– Cette petite terrasse ici près, me dit la fillette en robe de chambre, nous appartient aussi, au moins pour le moment. On va l’abattre, dit-on, parce qu’elle fait saillie…

Elle baissa les yeux. Pour lui plaire, alors, j’affectai de parler comme elle avec gravité :

– Et… pardon ! mademoiselle ! Il n’y a pas de bambins, n’est-ce pas, dans la maison ?

Elle secoua la tête, sans ouvrir la bouche. Peut-être dans ma demande sentit-elle une pointe d’ironie, que pourtant je n’avais pas eu l’intention d’y mettre. J’avais dit bambins et non bambines. Je m’empressai de réparer encore une fois :

– Et… dites-moi, mademoiselle, vous ne louez pas d’autres chambres, n’est-ce pas ?

– Celle-ci est la meilleure, répondit-elle sans me regarder. Si elle ne vous plaît pas…

– Non ! non ! Je demandais cela pour savoir si…

– Nous en louons une autre, dit-elle alors en levant les yeux avec un air d’indifférence forcée. Par ici, sur le devant… sur la rue. Elle est occupée par une demoiselle qui demeure avec nous depuis deux ans ; elle donne des leçons de piano… au-dehors.

Elle esquissa, en parlant ainsi, un sourire léger, léger et triste. Elle ajouta :

– Nous sommes moi, mon père et mon beau-frère…

– Paleari ?

– Non ! Paleari est mon père : mon beau-frère se nomme Térence Papiano… Mais il doit s’en aller avec son frère qui, pour l’instant, est ici aussi, avec nous. Ma sœur est morte… depuis six mois.

Pour changer de conversation, je lui demandai combien j’aurais à payer pour le loyer ; nous nous mîmes d’accord tout de suite ; je lui demandai aussi si je devais laisser des arrhes.

– À votre guise, me répondit-elle. Si vous vouliez plutôt laisser votre nom…

Je me tâtai la poitrine, en souriant nerveusement, et je dis :

– Je n’ai pas… Je n’ai même pas une carte de visite… Je m’appelle… Adrien, oui, justement : j’ai entendu que vous vous appeliez Adrienne, vous aussi, mademoiselle. Peut-être que cela vous déplaira ?

– Mais non ! Pourquoi ? fit-elle en remarquant évidemment mon curieux embarras et en riant, cette fois, comme une vraie gamine.

Je ris aussi et j’ajoutai :

– Et alors, si cela ne vous déplaît pas, je me nomme Adrien Meis. Voilà qui est fait ! Pourrais-je occuper la chambre ce soir même ? Ou plutôt je reviendrai demain matin…

Elle me répondit :

– Comme vous voudrez.

Mais je m’en allai avec l’impression que je lui ferais un grand plaisir en ne revenant plus. J’avais osé, ni plus ni moins, ne pas accorder à sa robe de chambre la considération qu’elle méritait.

Je pus constater cependant, quelques jours après, que la pauvre enfant était bien forcée de la porter, cette robe de chambre, dont elle se serait passée volontiers. Tout le poids de la maison pesait sur ses épaules. Qu’y serait-on devenu sans elle ?

Le père, Anselme Paleari, ce vieux qui était venu au-devant de moi avec un turban d’écume sur la tête, semblait avoir aussi un cerveau d’écume. Le jour même où j’entrai dans sa maison, il se présenta chez moi, non pas tant, dit-il, pour me refaire ses excuses de la manière peu convenable dont il m’était apparu la première fois, que pour le plaisir de faire ma connaissance, car j’avais l’aspect d’un étudiant ou d’un artiste, peut-être ?

– Est-ce que je me trompe ?

– Vous vous trompez ! Artiste… pas le moins du monde ! Étudiant… oui et non !… J’aime à lire quelques livres.

– Oh ! vous en avez de bons ! fit-il en regardant le dos de ceux que j’avais rangés sur la planchette du bureau. Et puis, si cela ne vous ennuie pas, je vous montrerai les miens. Eh ! J’en ai de bons, moi aussi. Eh !

Il haussa les épaules et resta là, distrait, les yeux dans le vague, évidemment sans plus se souvenir de rien, ni où il était ni avec qui ; il répéta encore deux fois : Eh !… Eh ! avec les angles de la bouche contractés en bas, et il s’en alla sans me saluer.

J’en éprouvai sur le moment un certain étonnement ; mais ensuite, lorsque, dans sa chambre, il me montra ses livres, comme il l’avait promis, je m’expliquai non seulement cette petite distraction d’esprit, mais encore tout le reste. Ces livres portaient des titres de ce genre : La Mort et l’au-delà, L’Homme et ses corps, Les Sept Principes de l’homme, Karma, La Clef de la Théosophie, ABC de la Théosophie, La Doctrine secrète, Le Plan astral, etc., etc. M. Anselme Paleari était affilié à l’école théosophique.

On l’avait mis à la retraite de son emploi de chef de bureau dans je ne sais quel ministère, avant l’âge, ce qui l’avait ruiné, non seulement pécuniairement, mais encore parce que, libre et maître de son temps, il s’était plongé tout entier dans ses études fantaisistes et dans ses nuageuses méditations, oubliant plus que jamais la vie matérielle. Au moins la moitié de sa pension devait s’en aller en achat de semblables livres. Déjà il s’en était fait une petite bibliothèque. Pourtant, la doctrine théosophique ne devait pas le satisfaire entièrement. Certes, le ver de la critique le rongeait, car, à côté de ces livres de théosophie, il avait encore une riche collection d’essais et d’études philosophiques anciennes et modernes et de livres de recherches scientifiques. Dans ces derniers temps, il s’était adonné aussi aux expériences de spiritisme.

Il avait découvert dans mademoiselle Silvia Caporale, maîtresse de piano, sa locataire, d’extraordinaires aptitudes au rôle de médium, aptitudes encore peu développées, à vrai dire, mais qui se développeraient sans doute avec le temps et l’exercice, jusqu’à se révéler supérieures à celles de tous les médiums les plus célèbres.

Pour mon compte, je puis attester n’avoir jamais vu, dans une figure d’une laideur vulgaire de masque de carnaval, une paire d’yeux plus dolents que ceux de mademoiselle Silvia Caporale. Ils étaient d’un noir intense, en globes, et donnaient l’impression qu’ils devaient avoir à l’intérieur un contrepoids de plomb, comme ceux des poupées automatiques. Mademoiselle Silvia Caporale avait plus de quarante ans et une belle paire de moustaches, sous un nez en boule, toujours rouge.

Je sus depuis, que cette pauvre femme était enragée d’amour. Elle se savait laide, vieille, et, de désespoir, elle buvait. Certains soirs, on la ramenait à la maison dans un état vraiment déplorable : son chapeau à l’envers, la boulette de son nez rouge comme une carotte et les yeux mi-clos, plus dolents que jamais.

Elle se jetait sur le lit, aussitôt tout le vin bu lui ressortait transformé en un infini torrent de larmes. C’était alors à la pauvre petite maman en robe de chambre à la veiller, à la réconforter jusqu’à une heure avancée de la nuit : elle en avait pitié, une pitié qui triomphait de la nausée : elle la savait seule au monde et très malheureuse, avec cette rage au corps qui lui faisait haïr sa vie, à laquelle elle avait déjà attenté deux fois ; elle l’amenait peu à peu à lui promettre qu’elle serait sage, qu’elle ne le ferait plus, et, le lendemain, elle la voyait apparaître parée et attifée avec de petites mines de gamine ingénue et capricieuse.

Les quelques lires qu’il lui arrivait de gagner de temps en temps en faisant répéter des chansonnettes à quelque débutante de café-concert, s’en allaient ainsi en boisson ou en parures, et elle ne payait ni le loyer de la chambre ni le peu qu’on lui donnait à manger là en famille. Mais on ne pouvait lui donner congé. Comment aurait-il fait, M. Anselme Paleari pour ses expériences de spiritisme ?

Il y avait au fond, cependant, une autre raison : mademoiselle Caporale, deux ans auparavant, à la mort de sa mère, avait quitté sa maison et, en venant vivre là, chez les Paleari, avait confié environ six mille lires, retirées de la vente des meubles, à Térence Papiano pour un négoce que celui-ci lui avait proposé, tout à fait sûr et fructueux : les six mille lires étaient disparues.

Quand elle-même, mademoiselle Caporale, en pleurant me fit cet aveu, je pus excuser dans une certaine mesure M. Anselme Paleari, que j’avais d’abord accusé de ne penser qu’à sa folie en gardant une telle femme en contact avec sa propre fille.

Il est vrai que pour la petite Adrienne, qui se montrait instinctivement bonne et même trop sage, il n’y avait peut-être pas lieu de craindre : en effet, plus que de toute autre chose, elle se sentait offensée au fond de l’âme par ces pratiques mystérieuses de son père, par cette évocation d’esprits au moyen de mademoiselle Caporale.

La petite Adrienne était pieuse. Je m’en aperçus dès les premiers jours, grâce à un bénitier de verre bleu pendu au mur au-dessus de la table de nuit, à côté de mon lit. Je m’étais couché la cigarette à la bouche, et je m’étais mis à lire un des livres de Paleari ; distrait, j’avais ensuite posé le bout de ma cigarette dans ce bénitier. Le lendemain, celui-ci n’y était plus. Sur la table de nuit, en revanche, était un cendrier. Je lui demandai si c’était elle qui l’avait enlevé du mur, et, elle, en rougissant légèrement, me répondit :

– Excusez-moi, il m’a semblé que vous aviez plutôt besoin d’un cendrier.

– Mais est-ce qu’il y avait de l’eau bénite dans le bénitier ?

– Il y en avait. Nous avons en face d’ici l’église Saint-Roch.

Et elle s’en alla. Elle voulait donc me sanctifier, cette minuscule petite maman, pour avoir puisé à la source Saint-Roch de l’eau bénite aussi pour mon bénitier ? Pour le mien et pour le sien, certainement. Le père ne devait pas en user. Et, dans le bénitier de mademoiselle Caporale, si toutefois elle en avait un, du vin bénit, plutôt.

*

* *

Le moindre incident, suspendu comme je me sentais déjà depuis un temps dans un vide étrange, me faisait maintenant tomber dans de longues réflexions. Celui du bénitier m’amena à penser que, depuis mon enfance, je n’avais plus observé aucune pratique religieuse ; je n’étais plus entré dans aucune église pour prier, après le départ de Pinzone, qui m’y conduisait avec Berto par ordre de notre mère. Je n’avais jamais senti aucun besoin de me demander à moi-même si j’avais vraiment une foi. Et Mathias Pascal était mort de male mort sans le secours de la religion.

Brusquement, je me vis dans une situation assez spécieuse. Pour tous ceux qui me connaissaient, je m’étais enlevé – bien ou mal – la pensée la plus fastidieuse et la plus affligeante qu’on puisse avoir en vivant : celle de la mort. Qui sait combien, à Miragno, disaient :

– Heureux Mathias, enfin ! Quoi qu’il en soit, il a résolu le problème.

Et pourtant, je n’avais rien résolu du tout. Je me trouvais maintenant avec les livres d’Anselme Paleari entre les mains, et ces livres m’enseignaient que les morts, les vrais, se trouvaient dans une condition identique à la mienne, dans les « gousses » du Kâmalcka, surtout les suicidés, que M. Leadbeater, auteur du Plan astral (premier degré du monde invisible, d’après la théosophie), représente comme en proie à toutes sortes d’appétits humains, qu’ils ne peuvent satisfaire, dépourvus comme ils le sont du corps physique, que cependant ils ignorent avoir perdu.

On sait que certaines espèces de folie sont contagieuses. Celle de Paleari, quoique au début j’y répugnasse, à la fin s’empara de moi. Non que je crusse vraiment être mort : ce n’aurait pas été un grand mal, car la grande affaire est de mourir et, à peine mort, je ne crois pas qu’on puisse avoir le triste désir de en vie. Je m’aperçus tout d’un coup qu’il me fallait mourir encore : voilà le mal ! Qui s’en souvenait plus ? Après mon suicide à l’Épinette, je n’avais naturellement plus vu autre chose devant moi que la vie. Et voici que maintenant, M. Anselme Paleari me présentait continuellement l’ombre de la mort.

Il ne savait plus parler d’autre chose, cet excellent homme ! Mais il en parlait avec tant de ferveur, et il lui échappait de temps à autre, dans la chaleur du discours, certaines images et certaines expressions si singulières qu’en l’écoutant je sentais subitement passer en moi l’envie de me débarrasser subitement de sa compagnie et de m’en aller habiter ailleurs. Du reste, la doctrine et la foi de M. Paleari, bien qu’elles me semblassent parfois puériles, étaient au fond réconfortantes, et puisque, hélas ! je m’étais arrêté à l’idée qu’un jour ou l’autre je devrais pourtant mourir pour de bon, il ne me déplaisait pas d’en entendre parler de la sorte.

– Est-ce logique ? me demanda-t-il un jour. Nous considérons actuellement l’homme comme l’héritier d’une série innombrable de générations, n’est-ce pas ? Vous, cher monsieur Meis, vous pensez que c’est une bête très cruelle et, dans son ensemble, bien peu estimable ? Je vous accorde cela. L’homme représente dans l’échelle des êtres un degré peu élevé : du ver à l’homme, mettons huit, mettons sept, mettons cinq degrés. Mais, par Diane ! la nature a fatigué des milliers, des milliers et des milliers de siècles pour monter ces cinq degrés, du ver à l’homme ; elle a dû évoluer, cette matière, pour atteindre, comme forme et comme substance, ce cinquième gradin, pour devenir cette bête menteuse, mais qui pourtant est capable d’écrire la Divine Comédie, monsieur Meis, et de se sacrifier comme ont fait votre mère et la mienne, et tout d’un coup, v’lan ! retourne à zéro ! Est-ce logique ? Mon nez, mon pied deviendront vers, mais non pas mon âme, par Bacchus ! Matière, elle aussi, oui, monsieur. Qui vous dit que non ? Mais non pas comme mon nez ou comme mon pied. Est-ce logique ?

– Pardon ! monsieur Paleari, lui objectais-je, un grand homme se promène, tombe, se heurte la tête, devient idiot. Où est l’âme ?

M. Anselme resta un instant à regarder, comme si un moellon lui fût tombé à l’improviste devant les pieds.

– Où est l’âme ?

– Oui. Vous ou moi, moi qui ne suis pas un grand homme, mais qui pourtant… c’est bon ! je raisonne : je me promène, tombe, me heurte la tête, deviens idiot. Où est l’âme ?

Paleari joignit les mains et, avec une expression de compassion bénigne, me répondit :

– Mais, bon Dieu ! pourquoi voulez-vous tomber et vous heurter la tête, monsieur Meis ?

– Par hypothèse…

– Mais non, monsieur. Promenez-vous tranquillement. Prenons les vieillards qui, sans avoir besoin de tomber et de se heurter la tête, peuvent naturellement devenir idiots. Eh bien ! qu’est-ce que cela veut dire ? Vous voudriez prouver par là que, le corps se cassant, l’âme s’affaiblit aussi, pour démontrer que l’extinction de l’un emporte l’extinction de l’autre ? Mais, pardon ! Imaginez un peu le cas contraire : des corps extrêmement exténués dans lesquels brille très puissante la lumière de l’âme : Jacques Léopardi ! et tant de vieillards, comme par exemple, Sa Sainteté Léon XIII ! Et donc ? Mais imaginez un piano et un pianiste : à un certain moment, en jouant, le piano se désaccorde ; une touche ne s’abaisse plus ; deux, trois cordes se rompent ; eh bien ! s’il vous plaît ! avec un instrument aussi réduit, le pianiste, tout habile qu’il puisse être, devra forcément mal jouer. Et si le piano ensuite se tait, est-ce que le pianiste n’existe plus ?

– Le cerveau serait le piano ; le pianiste, l’âme ?

– Justement, monsieur Meis. Or, si le cerveau se gâte, forcément l’âme se montre idiote, ou folle, ou que sais-je, moi ? Au reste, si le pianiste brise par inadvertance ou volontairement l’instrument, il paiera : qui casse paie. Tout se paie, tout. Mais ceci est une autre question. Pardon ! est-ce que cela ne veut rien dire pour vous que toute l’humanité, toute, depuis qu’on en a connaissance, a toujours eu une aspiration vers une autre vie, au-delà ? C’est un fait, cela ; un fait, une preuve réelle.

– On a dit : l’instinct de conservation…

– Mais non, monsieur, car je m’en fiche moi, vous savez ? de cette vile pelure qui me recouvre ! Elle me pèse ; je la supporte parce que je sais que je dois la supporter ; mais si on me prouve, par Diane ! que – après l’avoir supportée encore cinq ou six ou dix ans – je n’aurai pas payé mon écot en quelque façon, et que tout finira là, mais je la rejette aujourd’hui même, en ce moment même. Et où est alors l’instinct de la conservation ? Je me conserve uniquement parce que je sens que cela ne peut finir ainsi ! Mais autre chose est l’homme en particulier, dit-on, autre chose l’humanité ! L’individu fini, l’espèce continue son évolution. Jolie manière de raisonner ! Mais voyez un peu ! Comme si l’humanité, ce n’était pas moi, ce n’était pas vous, et tous les uns après les autres. Et n’avons-nous pas tous le même sentiment, à savoir que ce serait la chose la plus absurde et la plus atroce si tout devait consister, ici, en ce misérable souffle qui est notre vie terrestre : cinquante, soixante années d’ennui, de misère, de fatigues ? Pour quoi ? Pour rien !

– Eh ! soupirai-je en souriant, puisque après tout nous devons vivre, pourquoi nous occuper de la mort ?

– Pourquoi ? Mais parce que nous ne pouvons comprendre la vie, si en quelque façon nous n’expliquons la mort ! Le critérium directeur de nos actions, le fil pour sortir de ce labyrinthe, la lumière, en somme, monsieur Meis, la lumière doit nous venir de là, de la mort.

– Il y fait si noir !

– Noir ? Noir pour vous ! Essayez d’y allumer une petite lampe de foi, avec l’huile pure de l’âme ! Si cette lampe manque, nous errons ici, dans la vie, comme autant d’aveugles, avec toute la lumière électrique que nous avons inventée ! C’est bien, très bien, pour la vie, la lampe électrique ; mais, cher monsieur Meis, nous avons aussi besoin de l’autre pour nous faire un peu de lumière pour la mort. Écoutez ! j’essaye aussi certains soirs d’allumer une certaine petite lanterne à vitre rouge : il faut s’ingénier de toutes les manières pour y voir. Pour le moment, mon gendre Térence est à Naples. Il reviendra dans quelques mois, et alors je vous invite à assister à quelqu’une de nos séances. Qui sait si avec cette petite lanterne ?… Mais, suffit ; je ne veux pas vous en dire plus.

Comme on le voit, la compagnie d’Anselme Paleari n’était pas fort divertissante. Mais pouvais-je, sans me voir contraint à mentir, aspirer à quelque autre compagnie ? Je me souvenais encore du chevalier Titus Lenzi. M. Paleari, au contraire, ne se souciait pas de savoir rien de moi, satisfait de l’attention que je prêtais à ses discours. Presque chaque matin, après son ordinaire ablution de tout le corps, il m’accompagnait dans mes promenades : nous allions ou sur le Janicule, ou sur l’Aventin, ou sur le mont Mario, quelquefois jusqu’au pont Nomentane, toujours en parlant de la mort.

« Et voilà tout ce que j’ai gagné, pensais-je, à n’être pas mort réellement ! »

J’essayais quelquefois de l’amener à parler d’autre chose ; mais il semblait que M. Paleari n’eût pas d’yeux pour le spectacle de la vie extérieure : il marchait, presque toujours le chapeau à la main ; de temps en temps il l’élevait comme pour saluer une ombre et s’écriait :

– Sottises !

Une seule fois il m’adressa, brusquement, une question particulière :

– Pourquoi restez-vous à Rome, monsieur Meis ? Je haussai les épaules et lui répondis :

– Parce qu’il me plaît d’y rester…

– Et pourtant, c’est une triste ville, observa-t-il en secouant la tête. Beaucoup s’étonnent qu’aucune entreprise n’y réussisse, qu’aucune idée vive n’y pousse. Mais ceux-là s’étonnent parce qu’ils ne veulent pas convenir que Rome est morte.

– Rome aussi, morte ? m’écriai-je consterné.

– Depuis longtemps, monsieur Meis ! Et croyez-moi, tout effort pour la faire revivre est vain. Enfermée dans le rêve de son passé grandiose, elle ne veut plus entendre parler de cette vie mesquine qui s’obstine à fourmiller autour d’elle. Quand une ville a eu une vie comme celle de Rome, avec des caractères si nets et si particuliers, elle ne peut devenir une ville moderne, c’est-à-dire une ville comme une autre. Rome gît là, avec son grand cœur brisé, sur les flancs du Capitole. Sont-elles donc de Rome, ces nouvelles maisons ? Écoutez, monsieur Meis ! Ma fille Adrienne m’a parlé du bénitier qui était dans votre chambre, vous vous rappelez ? Adrienne vous l’a enlevé, ce bénitier ; mais l’autre jour il lui est tombé des mains et s’est brisé : il n’en est resté que la coquille, et celle-ci, à présent, est dans ma chambre, sur mon bureau, consacrée à l’usage que, par distraction, vous en aviez fait d’abord. Eh bien ! monsieur Meis, le destin de Rome est le même. Les papes en avaient fait – à leur manière, s’entend – un bénitier ; nous, Italiens, nous en avons fait, à notre manière, un cendrier. De tous les pays, nous sommes venus ici secouer la cendre de notre cigare, qui n’est autre chose que le symbole de la frivolité de cette misérable vie et du plaisir amer et empoisonné qu’elle nous donne.



 

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