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Capitolo 12
L’uragano
Difatti, il povero stava per aprire gli occhi. Aveva respinto la coperta di lana che O’Donnell gli aveva gettato addosso e cercava di liberarsi le gambe dai legami.
Si alzò a sedere con una brusca mossa e girò all'intorno uno sguardo smarrito, fissandolo poi sull’ingegnere e, quindi, sull’irlandese. Il suo volto nero, che contrastava vivamente col bianco dei suoi ricciuti capelli, tradiva ancora un profondo terrore, e le sue labbra non avevano riacquistato colore.
“Dove sono?” chiese, con voce rauca e tremula.
“Simone, amico mio,” disse l'ingegnere, “non riconosci più i tuoi amici?”
Il negro lo guardò senza rispondere, poi, passandosi una mano sulla fronte, sembrò evocare qualche lontano ricordo.
“Simone, tranquillizzati” riprese l’ingegnere. “Non vi era motivo di spaventarsi tanto.”
“Ah!” esclamò. “Mi ricordo quegli occhi...oh! che orribili occhi!”
Un tremito convulso lo riprese a quel ricordo, e i suoi denti stridettero.
“Calmati, Simone” disse O’Donnell. “Che diamine! Tanta paura per un polipo gigante? Prendi questo bicchiere di whisky e mandalo giù, figliolo mio.”
Afferrò il bicchiere che l’irlandese gli porgeva e lo vuotò d’un fiato, poi domandò:
“È morto il mostro?”
“L’ho ucciso” rispose O’Donnell.
“E quegli occhi? Dove sono quegli occhi?”
“Ventre di foca!” esclamò O’Donnell. “Vuoi che me li sia messi in tasca?”
“Mi fanno paura, li vedo ancora dinanzi a me, mi fissano sempre. Che orrida luce mandano!”
“Signor Kelly, temo che il suo cervello sia malato.”
“Quando l’impressione di terrore sarà cessata, forse si calmerà” rispose l’ingegnere. “Sorvegliamolo però, O’Donnell: in un momento di eccitazione, quel povero giovanotto può commettere qualche pazzia.”
“Temete che salti in mare?”
“No, ma.....” disse l'ingegnere, esitando.
“Mi mettete dei sospetti, Mister Kelly.”
“E quali?”
“Che Simone sia diventato pazzo.”
“Non lo credo: ma non vi nascondo che sono assai inquieto per il suo stato. Povero giovane! Se avessi saputo che non era un uomo adatto a prendere parte a questo viaggio irto di pericoli, l’avrei lasciato a terra: ma io lo credevo ormai abituato ai viaggi aerei, dopo avergli fatto fare più di ottanta ascensioni sul pallone frenato. Orsù, non disperiamo: forse si calmerà!”
L’ingegnere però cominciava a dubitare. Si era coricato sulle casse e rimaneva immobile, immerso in chissà quali tetri pensieri; pareva che non si rammentasse più di trovarsi sul vascello aereo e nemmeno di essere in compagnia del suo padrone e di O’Donnell. Però dai trasalimenti che agitavano le sue labbra si indovinava che egli era ancora in preda a un terribile spavento e che pensava sempre agli occhi smisurati del polipo gigante.
Il Washington intanto continuava a filare sopra l’immenso oceano. Il sole, che cominciava a diventare assai caldo, aveva dilatato completamente l’idrogeno, innalzando l’aerostato di altri duecento metri.
Il vento si manteneva stabile e sempre fresco e trascinava il vascello aereo nella stessa direzione del giorno innanzi, cioè verso il sud-est. Però da certi indizi, s’indovinava che doveva fra non molto subire qualche violenza.
Qua e là, perduti nell’immensità celeste, si vedevano parecchi cirri, e si sa che quelle nubi portano un cambiamento nelle direzioni e nelle velocità dei venti. Anche ad oriente si vedevano salire nubi biancastre, opaline che indicavano come in quella regione soffiasse una corrente contraria.
“La perturbazione atmosferica si avvicina,” disse l’ingegnere a O’Donnell, “e temo che l’incontro violento delle correnti d’aria produca qualche uragano. Siamo vicini a una regione che si è acquistata una ben triste celebrità.”
“A quale regione?”
“Le Antille e le Lucaie non sono lontane, O’Donnell.”
“Vi è la fabbrica dei cicloni in quelle isole? chiese l’irlandese.
“Sì” rispose l'ingegnere ridendo. “Non vi è forse regione più battuta dagli uragani che quella. Quelle ricche e splendide isole ogni qualche tempo subiscono danni immensi a causa delle trombe che vanno a rompersi sulle loro coste. Vi basti sapere che colà il vento raggiunse più volte una velocità di 45 metri per minuto secondo.”
“Quale urto deve produrre!”
“A simili correnti non resistono le case più solide.”
“Quelle disgraziate isole devono subire spaventevoli devastazioni, Mister Kelly.”
“Ve ne citerò alcune per darvi un’idea di quegli uragani. Nel 1825 un ciclone si rovesciò sulla Guadalupa, devastando completamente piantagioni di zucchero e di caffè, atterrando le abitazioni, anzi rasandole al suolo. Un grande fabbricato di pietra, appena costruito, fu rovesciato in gran parte, e le tegole venivano trascinate via con tale impeto, che talune attraversarono perfino delle porte da parte a parte!”
“Quello era vento!”
“Quarantacinque anni prima, un altro uragano aveva atterrato interamente Savanala-Marry, città situata sulla costa occidentale della Giamaica. mandando a picco quattro navi che si trovano nella baia e rovinandone altre tre. Alla Martinica invece fu così terribile, essendovisi unito uno spaventevole maremoto, che uccise novemila persone, seppellì circa mille infermi sotto le rovine dell’ospitale di Fort-de-France, atterrò la cattedrale, sette chiese e rovesciò centinaia di case, mentre il mare, alzatosi otto metri sul livello ordinario, d’un sol colpo spazzava via centocinquanta fabbricati.”
“Che tremendi disastri!” esclamò O’Donnell.
“Ma questo non è ancora tutto. Una flotta composta di cinquanta navi mercantili di due fregate, sorpresa dall'uragano nei pressi della Martinica, fu inghiottita dal mare, e soli sette barconi riuscivano a salvarsi. Dei cinquemila uomini che montavano quelle navi, ben pochi riuscirono ad approdare. A Santo Stefano altre ventisette navi furono fracassate contro la costa; alla Dominica tutte le abitazioni intorno al porto furono demolite; all’isola S. Vincenzo, di seicento case che formavano la cittadella di Kingston, solo quattordici rimasero in piedi, e il mare lanciò sulle spiagge banchi di corallo strappati dal fondo; a Santa Lucia infierì più tremendo, poiché atterrò tutte le abitazioni uccise fra i rottami seimila persone, distrusse il forte, e il mare sollevò dei grossi cannoni che erano situati su di un bastione alto trentacinque metri!
Durante quel cataclisma furono osservati dei fenomeni elettrici bizzarri. Si videro dei fulmini globulari in grande numero, e tutte le costruzioni metalliche furono distrutte o contorte o lacerate in modo incredibile.”
“Se si cogliesse un simile ciclone, il nostro Washington non resisterebbe.”
“Lo credo, O’Donnell. Anche innalzandoci, la spinta del vento sarebbe tale da lacerare i nostri palloni come fossero di carta. Fortunatamente simili uragani sono rari.”
“To’!” esclamò O’Donnell, che da qualche istante guardava verso l’est. “Che cosa si vede laggiù, Mister Kelly?”
L’ingegnere guardò nella direzione indicata e vide, a circa duemila metri, dinanzi all’aerostato, una zona color verde pallido, sospesa a circa duemiladuecento metri.
“E una nube trasparente che si mostra a noi orizzontalmente” disse.
“Si direbbe un grosso velo.”
“Il vento ci spinge sopra di essa. La osserveremo dall’alto.”
L’aerostato marciava precisamente nella direzione della nube. In pochi minuti vi fu sopra, essendo più alto di circa trecento metri. Tosto il colore verdastro scomparve, e i due aeronauti scorsero solamente una lunga distesa di nebbia leggerissima, che permetteva di discernere sotto di essa l’oceano. L’ombra immensa dei due palloni appena si distingueva su quella zona vaporosa, tanto era trasparente.
Al di là però di quella nebbia il Washington s’imbatté in una grande nuvola, o meglio in parecchi banchi di fitti vapori, disposti in strati dello spessore di ben oltre duecento metri sovrapposti gli uni su gli altri e separati da un breve spazio d’aria.
Gli aeronauti si trovarono avvolti in una semioscurità e provarono un’acuta sensazione di freddo assai umido.
In pochi istanti le loro vesti furono bagnate, e l’aerostato, diventato più pesante per quella umidità, s’abbassò bruscamente, attraversando strati inferiori.
“Precipitiamo?” chiese O’Donnell, mentre Simone, che pareva si fosse accorto della caduta del Washington, s’era rapidamente alzato, gettando uno sguardo strabuzzato.
“Ci fermeremo e più tardi risaliremo” rispose l’ingegnere.
“Senza gettare zavorra?”
“S’incaricherà il sole di asciugarvi. Badate a Simone, O’Donnell”
“Non lo perdo d’occhio.”
Il Washington attraversò successivamente tre strati di densa nebbia e si arrestò a circa ottocento metri dall’oceano. Colà l’atmosfera era sgombra di nubi e raggi del sole, cadendo un po’ orizzontalmente, erano caldissimi.
Un’ora dopo l’aerostato risaliva fra le nubi; ma poco dopo tornava a ricadere a causa della umidità che lo rendeva sempre pesante. Essendo vicino al tramonto e sapendo che il pallone sarebbe egualmente ricaduto per il condensarsi dell’idrogeno, l’ingegnere non volle privarsi di parte della zavorra, che ora diventava più preziosa che mai.
Alle nove la notte scese con rapidità quasi fulminea, non essendovi presso i tropici che un brevissimo crepuscolo, e l’aerostato poco dopo ricominciava la discesa, mentre la seta dei due immensi fusi formava, specialmente alle due estremità, delle pieghe considerevoli.
L’ingegnere, vedendo il cielo coprirsi rapidamente di nubi e temendo che l’uragano già annunciato dal barometro scoppiasse durante la notte, non indugiò a prendere tulle le precauzioni necessarie per non trovarsi impreparato. Fece mettere per la prima volta in opera la pompa premente per riempire più che poteva i due palloncini d’aria, onde mantenessero tesa la superficie dei due grandi fusi, eliminando le pieghe del tessuto, che potevano diventare pericolose con un vento impetuoso. Sotto la violenta pressione della pompa, i due palloncini si gonfiarono tanto quasi da scoppiare, comprimendo l’idrogeno dei due fusi, il quale rioccupò gli spazi lasciati poco prima liberi dal condensamento. Se quell’aria non aumentava la forza ascensionale, manteneva però tesa la superficie della seta, la quale in tal modo non offriva presa al vento, né formava borse entro le quali potesse introdursi e produrre degli strappi.
Non si limitò a questo. Fece preparare due cilindri di idrogeno compresso sotto le manichelle dei fusi, che erano state saldamente legate a poppa della navicella, e disporre la zavorra lungo i bordi per essere più pronti a gettarla in mare al primo pericolo. Mentre erano occupati in questi preparativi le nubi avevano invaso la volta celeste, stendendosi sopra l’aerostato e facendo scomparire le stelle. Una profonda oscurità avvolgeva l’oceano e il Washington, oscurità che pareva diventasse di momento in momento più densa e paurosa.
Il vento aveva fatto un brusco salto, piegando verso il sud-est, e la sua velocità era notevolmente accresciuta, toccando i sedici metri per minuto secondo. Non aveva ancora raggiunto la rapidità che acquista nelle tempeste, che è di metri 22,5 per minuto secondo, di 27 nelle grandi tempeste, di 36 negli uragani e di 45 nei terribili cicloni, ma non doveva tardare a diventare più violento.
Lo si udiva fischiare talora attraverso le corde e le maglie delle reti e lo si sentiva imprimere delle scosse ai due grandi fusi, i quali campeggiavano come se si trovassero sulle onde del mare, facendo oscillare la navicella. Però sembrava che una calma assoluta regnasse intorno agli aeronauti, poiché, filando col vento e con pari velocità, raramente provavano gli effetti di quei soffi impetuosi.
Sotto, invece, si udiva l’oceano muggire sordamente a meno di quattrocento metri. Di quando in quando, su quell’immensa distesa color d’inchiostro, si vedevano fugaci bagliori, prodotti senza dubbio da un principio di fosforescenza.
Simone, ogni volta che udiva quei minacciosi brontolii e quei cozzi furiosi delle grande ondate, trasaliva e fissava i suoi grandi occhi sul padrone, mentre delle parole rotte gli uscivano dalle labbra contratte.
Alle dieci O’Donnell, essendosi aggrappato ad un filo di rame che rinforzava una corda di sostegno, con una grande sorpresa vide scoccare una scintilla e provò alla mano una puntura.
“Per Giove e Saturno!” esclamò “Che cosa è questa?”
“Brutto segno” rispose l’ingegnere “Bisogna sacrificare della zavorra e innalzarci.”
“Perché, Mister Kelly?”
“Ciò indica che l’aria è satura di elettricità e che fra poco cadranno parecchi fulmini. Saliamo, O’Donnell, prima che uno colpisca i nostri aerostati.”
“Quanta zavorra dobbiamo gettare?”
“Cinquanta chilogrammi basteranno.”
O’Donnell afferrò un sacco e lo precipitò nell’oceano.
Quasi nel medesimo istante un lampo abbagliante ruppe le tenebre e un sordo tuono echeggiò fra le tempestose nubi, perdendosi nei lontani orizzonti con un lungo rullo.
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Chapitre 12
L'ouragan
En fait, le pauvre homme était sur le point d'ouvrir les yeux. Il avait repoussé la couverture de laine que O'Donnell avait jetée sur lui et essayait de libérer ses jambes de leurs liens.
Il s'est assis brusquement et a tourné un regard ahuri autour de lui, le fixant sur l'ingénieur, puis sur l'Irlandais. Son visage noir, qui contrastait vivement avec le blanc de ses cheveux bouclés, trahissait encore une profonde terreur, et ses lèvres n'avaient pas retrouvé leur couleur.
"Où suis-je ?", a-t-il demandé d'une voix rauque et tremblante.
"Simone, mon amie," dit l'ingénieur, "ne reconnaissez-vous plus vos amis ?"
Le nègre le regarda sans répondre, puis, passant une main sur son front, il sembla évoquer quelque lointain souvenir.
"Simone, calme-toi", reprend l'ingénieur. "Il n'y avait aucune raison d'être aussi effrayé."
"Ah !" s'est-elle exclamée. "Je me souviens de ces yeux... oh ! ces yeux horribles !"
Un tremblement convulsif le saisit à ce souvenir, et ses dents grincèrent.
Calme-toi, Simone, dit O'Donnell. Que diable ! Tant de peur pour une pieuvre géante ? Prends ce verre de whisky et bois-le, mon fils."
Il saisit le verre que l'Irlandais lui tend et le vide d'un trait, puis demande :
"Le monstre est-il mort ?"
"Je l'ai tué", a répondu O'Donnell.
"Et ces yeux ? Où sont ces yeux ?"
"Ventre de phoque !" s'exclame O'Donnell. "Tu veux que je les mette dans ma poche ?"
"Ils me font peur, je les vois encore devant moi, toujours à me fixer. Quelle lumière horrible ils envoient !"
"M. Kelly, j'ai peur que votre cerveau soit malade."
"Quand l'impression de terreur aura cessé, peut-être se calmera-t-il", répondit l'ingénieur. "Surveillons-le, cependant, O'Donnell : dans un moment d'excitation, le pauvre jeune homme peut commettre une folie".
"Vous avez peur qu'il saute par-dessus bord ?"
"Non, ma.....", dit l'ingénieur, hésitant.
"Vous me rendez suspicieux, Monsieur Kelly."
"Lesquelles ?"
"Ce Simon est devenu fou."
" Je ne le crois pas : mais je ne vous cacherai pas que je suis très inquiet de son état. Pauvre jeune homme ! Si j'avais su qu'il n'était pas un homme apte à prendre part à ce voyage plein de dangers, je l'aurais laissé à terre : mais je pensais qu'il était maintenant habitué aux voyages aériens, après lui avoir fait faire plus de quatre-vingts ascensions sur le ballon freiné. Maintenant, ne désespérons pas : peut-être va-t-il se calmer !"
L'ingénieur, cependant, commençait à douter. Il s'était allongé sur les caisses et restait immobile, plongé dans on ne sait quelles pensées lugubres ; il semblait ne plus se souvenir qu'il était sur le vaisseau aérien, ni qu'il était en compagnie de son maître et d'O'Donnell. Cependant, on pouvait deviner, à l'agitation de ses lèvres, qu'il était toujours en proie à une terrible frayeur et qu'il pensait toujours aux yeux énormes de la pieuvre géante.
Pendant ce temps, le Washington continue de tourner au-dessus de l'immense océan. Le soleil, qui commençait à être très chaud, avait dilaté complètement l'hydrogène, faisant monter le ballon de deux cents mètres supplémentaires.
Le vent était stable et toujours frais et entraînait le dirigeable dans la même direction que la veille, c'est-à-dire vers le sud-est. Cependant, d'après certaines indications, on pouvait deviner qu'il allait bientôt subir quelques violences.
Ici et là, perdus dans l'immensité céleste, on pouvait apercevoir quelques cirrus, et l'on sait que ces nuages apportent un changement dans les directions et les vitesses des vents. À l'est également, on pouvait voir s'élever des nuages blanchâtres et opalins, indiquant qu'un courant contraire soufflait dans cette région.
"La perturbation atmosphérique approche, dit l'ingénieur à O'Donnell, et je crains que la rencontre violente des courants d'air ne produise quelque ouragan. Nous sommes proches d'une région qui a acquis une bien triste célébrité."
"Quelle région ?"
"Les Antilles et la Lucarne ne sont pas loin, O'Donnell."
"Y a-t-il une usine à cyclones dans ces îles ?" demande l'Irlandais.
"Oui", répond l'ingénieur en riant. "Il n'y a peut-être pas de région plus meurtrie par les ouragans que celle-là. Ces îles riches et belles subissent de temps à autre d'immenses dégâts dus aux tornades qui déferlent sur leurs côtes. Il suffit de dire que là, le vent a atteint à plusieurs reprises une vitesse de 45 mètres par seconde et par minute."
"Quel choc cela doit produire !"
"De tels courants ne peuvent résister aux maisons les plus solides."
"Ces îles misérables doivent subir une dévastation effroyable, M. Kelly."
"Je vais en mentionner quelques-uns pour vous donner une idée de ces ouragans. En 1825, un cyclone a balayé la Guadeloupe, dévastant complètement les plantations de sucre et de café, renversant les maisons, voire les rasant. Un grand bâtiment en pierre, qui venait d'être construit, a été renversé en grande partie, et les tuiles ont été emportées avec une telle impétuosité que certaines ont même traversé les portes de part en part !".
"C'était du vent !"
"Quarante-cinq ans plus tôt, un autre ouragan avait entièrement débarqué à Savanala-Marry, une ville de la côte ouest de la Jamaïque. Il avait coulé quatre navires dans la baie et en avait ruiné trois autres. A la Martinique, au contraire, elle fut si terrible, étant jointe à un raz-de-marée épouvantable, qu'elle tua neuf mille personnes, ensevelit environ mille infirmes sous les ruines de l'hospice de Fort-de-France, fit atterrir la cathédrale, sept églises et renversa des centaines de maisons, tandis que la mer, s'élevant de huit mètres au-dessus du niveau ordinaire, emporta d'un seul coup cent cinquante bâtiments."
"Quels terribles désastres !" s'exclame O'Donnell.
"Mais ce n'était pas tout. Une flotte de cinquante navires marchands de deux frégates, prise dans l'ouragan près de la Martinique, a été engloutie par la mer, et seuls sept chalands ont réussi à se sauver. Sur les cinq mille hommes présents sur ces navires, très peu ont réussi à débarquer. À Santo Stefano, vingt-sept autres navires se sont écrasés contre la côte ; à la Dominique, toutes les maisons autour du port ont été démolies ; à l'île Saint-Vincent, sur six cents maisons détruites, seules quelques-unes ont réussi à débarquer. Vincent, sur les six cents maisons qui composaient la citadelle de Kingston, quatorze seulement sont restées debout, et la mer a projeté sur les plages des récifs coralliens arrachés aux fonds marins ; à Sainte-Lucie, elle s'est déchaînée de la façon la plus formidable, car elle a débarqué toutes les maisons, tué six mille personnes dans les décombres, détruit le fort, et la mer a soulevé de gros canons qui étaient situés sur un bastion de trente-cinq mètres de haut !
Pendant ce cataclysme, des phénomènes électriques bizarres ont été observés. Des éclairs globulaires ont été vus en grand nombre, et toutes les constructions métalliques ont été détruites ou tordues ou déchirées d'une manière incroyable."
"Si un tel cyclone se produisait, notre Washington n'y résisterait pas."
"Je le crois, O'Donnell. Même si nous nous élevions, l'élan du vent serait tel qu'il déchirerait nos ballons comme s'ils étaient en papier. Heureusement, de tels ouragans sont rares."
"To' !" s'exclama O'Donnell, qui regardait vers l'est depuis quelques instants. "Que pouvez-vous voir en bas, M. Kelly ?"
L'ingénieur regarde dans la direction indiquée et voit, à environ deux mille mètres, devant l'aérostat, une zone vert pâle, suspendue à environ deux mille deux cents mètres.
"Et un nuage transparent se montrant à nous horizontalement", a-t-il dit.
"On dirait un grand voile."
"Le vent nous pousse au-dessus. Nous l'observerons d'en haut."
Le ballon a marché précisément dans la direction du nuage. En l'espace de quelques minutes, il se trouvait au-dessus, à quelque trois cents mètres plus haut. Bientôt, la couleur verdâtre disparut, et les deux aéronautes ne purent voir qu'une longue étendue de brouillard très léger, qui leur permit de discerner l'océan en dessous. L'ombre immense des deux ballons se distinguait à peine sur cette zone vaporeuse, tant elle était transparente.
Mais au-delà de ce brouillard, le Washington est tombé sur un grand nuage, ou plutôt sur plusieurs bancs de vapeur épaisse, disposés en couches de plus de deux cents mètres d'épaisseur, superposées et séparées par un court espace d'air.
Les aéronautes se sont retrouvés enveloppés dans une semi-obscurité et ont ressenti une vive sensation de froid très humide.
En quelques instants, leurs robes étaient trempées, et l'aérostat, devenu plus lourd à cause de cette humidité, s'est brusquement abaissé à travers les couches inférieures.
"On descend ?" demande O'Donnell, tandis que Simone, qui semble avoir remarqué la chute de Washington, se relève rapidement, en jetant un regard louche.
Nous nous arrêterons et nous remonterons plus tard", a répondu l'ingénieur.
"Sans jeter du lest ?"
"Le soleil va te sécher. Prends soin de Simone, O'Donnell"
"Je ne le laisserai pas hors de ma vue."
Le Washington a ensuite traversé trois couches de brouillard dense et s'est immobilisé à environ huit cents mètres de l'océan. Là, l'atmosphère était dégagée de tout nuage et les rayons du soleil, tombant quelque peu horizontalement, étaient très chauds.
Une heure plus tard, l'aérostat s'élevait à travers les nuages, mais peu après, il retombait à cause de l'humidité qui le rendait toujours lourd. À l'approche du coucher du soleil et sachant que le ballon allait également retomber en raison de la condensation de l'hydrogène, l'ingénieur ne voulait pas se priver d'une partie du lest, qui était maintenant plus précieux que jamais.
A neuf heures, la nuit tomba avec une rapidité presque foudroyante, car il n'y avait près des tropiques qu'un très bref crépuscule, et l'aérostat recommença peu après sa descente, tandis que la soie des deux immenses fuseaux formait, surtout aux deux extrémités, des plis considérables.
L'ingénieur, voyant le ciel rapidement couvert de nuages et craignant que l'ouragan déjà annoncé par le baromètre n'éclate dans la nuit, n'a pas hésité à prendre toutes les précautions nécessaires pour ne pas être pris au dépourvu. Il a fait fonctionner pour la première fois la pompe à pression pour remplir les deux ballons d'air au maximum, afin de maintenir la surface des deux grands fuseaux tendus, éliminant ainsi les plis du tissu, qui pourraient devenir dangereux en cas de vent fort. Sous la pression violente de la pompe, les deux ballons ont tellement gonflé qu'ils ont failli éclater, comprimant l'hydrogène des deux fuseaux, qui a réoccupé les espaces laissés vacants juste avant par la condensation. Bien que cet air n'ait pas augmenté la force ascendante, il a maintenu la surface de la soie tendue, de sorte qu'elle n'offrait pas de prise au vent et ne formait pas de poches dans lesquelles il pouvait pénétrer et se déchirer.
Il ne s'est pas arrêté là. Il a fait préparer deux cylindres d'hydrogène comprimé sous les manches de la broche, qui ont été fermement attachés à la poupe du vaisseau spatial, et a disposé le lest le long des bords pour être plus prêt à le jeter par-dessus bord au premier danger. Alors qu'ils étaient occupés à ces préparatifs, les nuages avaient envahi la voûte céleste, se répandant sur l'aérostat et faisant disparaître les étoiles. Une obscurité profonde enveloppait l'océan et Washington, une obscurité qui semblait devenir plus épaisse et plus effrayante à chaque instant.
Le vent avait fait un saut brusque, s'orientant vers le sud-est, et sa vitesse avait considérablement augmenté, atteignant seize mètres par minute seconde. Il n'avait pas encore atteint la rapidité qu'il acquiert dans les tempêtes, soit 22,5 mètres par seconde et par minute, 27 dans les grandes tempêtes, 36 dans les ouragans et 45 dans les terribles cyclones, mais il ne devait pas tarder à devenir plus violent.
On l'entendait parfois siffler à travers les cordes et les mailles des filets, et on sentait qu'il secouait les deux grands fuseaux, qui se tenaient comme sur les vagues de la mer, provoquant le balancement du navire. Cependant, un calme absolu semblait régner autour des aéronautes, car, filant au gré du vent et à vitesse égale, ils ne ressentaient que rarement les effets de ces coups impétueux.
En dessous, cependant, on pouvait entendre l'océan mugir faiblement à moins de quatre cents mètres. De temps en temps, sur cette immense étendue d'encre, on pouvait apercevoir des lueurs fugaces, sans doute produites par un principe de phosphorescence.
Chaque fois qu'il entendait ces grondements inquiétants et les caquètements furieux des grandes vagues, il grimaçait et fixait ses grands yeux sur son maître, tandis que des mots brisés s'échappaient de ses lèvres contractées.
À dix heures, O'Donnell, qui s'était accroché à un fil de cuivre renforçant une corde de soutien, a vu à sa grande surprise une étincelle se déclencher et a senti une piqûre dans sa main.
"Par Jupiter et Saturne !" s'est-il exclamé, "Qu'est-ce que c'est ?"
"Mauvais signe", répondit l'ingénieur, "Nous devons sacrifier du lest et nous élever".
"Pourquoi, M. Kelly ?"
"Cela indique que l'air est saturé d'électricité et que de nombreux éclairs vont bientôt tomber. Allons-y, O'Donnell, avant que l'un d'eux ne touche nos ballons."
"Combien de lest devons-nous lâcher ?"
"Cinquante kilogrammes suffiront."
O'Donnell a attrapé un sac et l'a jeté dans l'océan.
Presque au même instant, un éclair éblouissant a traversé l'obscurité et un coup de tonnerre sourd a résonné à travers les nuages orageux, se perdant dans les horizons lointains avec un long roulement. |