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Capitolo 15

La nave dei morti

Verso l’est, a una grande distanza, un punto nero spiccava nettamente sulla tranquilla superficie dell’Atlantico e sembrava perfettamente immobile. Non poteva essere un uccello, né una barca, poiché a tale distanza né l’uno né l’altra sarebbero stati visibili, né un pescecane di grandi dimensioni, poiché non sarebbe rimasto immobile, né un vascello, poiché su quel punto nero non si scorgevano né un pennacchio di fumo, che si sarebbe facilmente riconosciuto, né delle vele.
“Che cosa può essere?” si chiese O’Donnell, fissando con grande attenzione quella macchia nera che si trovava proprio sulla direzione dell’aerostato.
“Forse un cetaceo che dorme tranquillamente a fior d’acqua, o che è stato ucciso” disse l’ingegnere.
“Una balena qui, in questi climi caldi?”
“No, O’Donnell: le balene non abbandonano quasi mai i mari freddi: ma i capidogli si trovano dovunque, anche sotto l'equatore.”
“Vediamo” disse l’irlandese, prendendo il cannocchiale puntandolo in direzione della macchia nera.
Guardò per parecchi minuti con estrema attenzione, poi abbassò lo strumento. La più viva sorpresa era dipinta sul suo viso.
“Non è un cetaceo” disse.
“Che cosa è dunque?” chiese l'ingegnere.
“L’avanzo di un disastro marittimo, Mister Kelly.”
“Un rottame?”
“Sì, una nave senz’alberi, coricata sul tribordo e senza equipaggio.”
“Un veliero.”
“Senza dubbio perché non scorgo la ciminiera della macchina.”
“Sarà stato abbandonato dal suo equipaggio.”
“Abbandonato! No, Mister Kelly.”
“Come lo sapete?”
“Ho veduto sospese alle gru di babordo e di tribordo quattro imbarcazioni.”
“È impossibile, O’Donnell!”
“Guardate, Mister Kelly.”
L’ingegnere prese a sua volta il cannocchiale e guardò.
“Avete ragione” disse poi. “Le scialuppe sono a posto.”
“Che l’equipaggio si sia salvato su di una zattera?”
“Avrebbe portato con sé anche le imbarcazioni, che sono sempre preferibili a una zattera che veleggia male e che una tempesta può facilmente sfasciare.”
“Che l’equipaggio sia stato raccolto da qualche nave?”
“Potrebbe essere; ma perché la nave salvatrice avrebbe lasciato le imbarcazioni, che hanno un certo valore?”
“Sarei curioso di chiarire questo mistero, Mister Kelly.”
“Lo chiariremo, O’Donnell. Il vento ci spinge proprio diritti su quella nave, e prima di sera noi l’abborderemo.”
“Purché il vento non cambi.”
“Sono deciso ad abbassarmi ed a gettare le mie àncore. Forse su quella nave possiamo trovare dell’acqua e riempire i nostri barilotti, che si stanno svuotando con una rapidità che mi spaventa. È molto se ne abbiamo centocinquanta litri.”
“In trenta ore il sole ci ha assorbito più di quaranta litri!” esclamò O’Donnell. “Se questa calma ci tiene imprigionati quattro o cinque giorni ancora, noi saremo alle prese con la sete.”
“Vedete che è necessario abbordare quella nave.”
“Se vi passeremo solamente vicini, io sono deciso a calarmi in acqua, Mister Kelly, e a rimorchiare il pallone.”
“Ed io a sacrificare un po’ d’idrogeno.”
Perdurando la calma, l’aerostato si avvicinava alla nave con estrema lentezza, essendovi appena appena un soffio d’aria, e non sempre continuo. Era molto se i due fusi percorrevano uno spazio di cinque o sei chilometri all’ora, mentre quel rottame si trovava lontano trenta e anche più.
A mezzodì anche quel leggerissimo alito di vento venne a mancare, e il Washington rimase immobile a ventidue o ventiquattro chilometri di distanza. Però verso le tre, quando il gran calore, che aveva raggiunto la spaventevole cifra di 42°, cominciò a scemare, s’alzò una brezza mi po’ fresca, che lo spinse con la velocità di otto chilometri all’ora.
Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l’idrogeno. Alle quattro pomeridiane l’oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri.
A così breve distanza, con l’aiuto del cannocchiale, l’ingegnere e l’irlandese potevano scorgerla nettamente.
Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle.
Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta.
Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere.
“Che sia qualche animale?” chiese O'Donnell.
“Sarà forse un cane” rispose l'ingegnere.
“Abbandonato dell’equipaggio?”
“Certamente.”
“Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame.”
“Lo credo anch’io.”
Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa.
L’ingegnere fece attaccare l’ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l’aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo.
Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d’acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s’avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii.
“Attento all’àncora. O’Donnell” gridò l'ingegnere.
“Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni” rispose l’irlandese.
Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s’abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L’àncora, guidata dal braccio dell’irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo.
Il cane, un enorme molosso, s’avventò rabbioso verso l’àncora, emettendo minacciosi ululati.
“Diavolo!” esclamò O’Donnell. “Sarà un po’ difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly.”
“Lo uccideremo, O’Donnell. Ma...”
“Che cosa?”
“Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?”
“Per mille merluzzi! E odore di morti questo!” esclamò l’irlandese, impallidendo.
Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull’oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l’aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!”
L’ingegnere e O’Donnell, entrambi in preda a grand’emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d’una tenebrosa voragine, ma invano.
“Gran Dio!” esclamò l’irlandese. “Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell’olandese maledetto, o la nave-feretro?”
“Siete coraggioso, O’Donnell?” chiese l’ingegnere.
“Lo credo” rispose l’irlandese.
“Allora seguitemi!”
“E Simone?”
“Rimarrà a guardia dell’aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire.”
“Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso.”
“Simone!” disse l’ingegnere.
“Simone,” ripetè “cosa fai?”
“Dei morti?” chiese, battendo i denti. “Io paura.”
“Ma quali morti, pauroso?”
“Tu sogni, Simone”
“No” disse l’africano con strana energia.
“Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly” disse l’irlandese. “Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo.”
“Quale?”
“Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno.”
“Rimanete qui voi, O’Donnell. Scenderò io.”
“Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo.”
“Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d’aiuto mi raggiungerete.”
“Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l’aerostato ed esporvi a dei pericoli.”
Poi, prima che l’ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s’aggrappò alla fune e si lasciò scivolare.
“Badate al cane” gridò l’ingegnere.
“Ho la rivoltella” rispose O’Donnell.
Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti.
Giunto all’ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L’enorme molosso stava presso all’ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca.
“È idrofobo!” esclamò O’Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. “Bel guardiano a questa nave dei morti!”
Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave.
“È morto?” gli chiese l’ingegnere, dall’alto.
“Lo credo” rispose O’Donnell. “Se si rialza ho altri due colpi.”
Si lasciò andare e cadde sulla tolda.
“Corna di cervo!” esclamò. “Che profumi! Ma che cos’è accaduto qui? Che l’equipaggio si sia scannato?”
S’avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto.
Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione.
“Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni” mormorò.
Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz.
“È una nave messicana” gridò, volgendosi verso l’ingegnere, che lo guardava con ansietà.
“Vi sono dei morti?” chiese l’ingegnere.
“Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente.”
“Udite nessun rumore, nessun gemito?”
“Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana.”
“Temo un grave pericolo, O’Donnell.”
“Bah! I morti non si muovono.”
“Ma avvelenano, uccidono.”
“Ho la pelle dura” rispose l’irlandese, che forse non aveva compreso l’allusione dell’ingegnere.
Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva.
La sua assenza fu breve. L’ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l’ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle.
“Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!” gridò con accento di terrore.
S’aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all’ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita:
“Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!”
“Ma che cosa avete veduto, O’Donnell?” chiese l’ingegnere. “Siete pallido e sconvolto.”
“Ho... che forse noi, che abbiamo respirato... quei miasmi,... siamo perduti.”
“È scoppiata una epidemia su quella nave?”
“Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!”
“Fuggiamo” ripeté l’ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido.
Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra.
L’aerostato, scaricato di quel peso, s’innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

 

 Chapitre 15

Le bateau des morts

Vers l'est, à une grande distance, un point noir se détachait nettement sur la surface calme de l'Atlantique et semblait parfaitement immobile. Il ne pouvait s'agir d'un oiseau, ni d'un bateau, car à une telle distance on n'aurait pu voir ni l'un ni l'autre, ni d'un grand requin, car il ne serait pas resté immobile, ni d'un navire, car on ne voyait sur cette tache noire ni un panache de fumée, que l'on reconnaîtrait facilement, ni des voiles.
"Qu'est-ce que ça peut être ?" se demande O'Donnell, en fixant intensément ce point noir qui se trouve juste en direction de l'aérostat.
"Peut-être un cétacé dormant paisiblement au bord de l'eau, ou un cétacé qui a été tué", a déclaré l'ingénieur.
"Une baleine ici, dans ces climats chauds ?"
"Non, O'Donnell : les baleines ne quittent pratiquement jamais les mers froides : mais on trouve des cachalots partout, même sous l'équateur."
"Voyons voir", dit l'Irlandais en prenant le télescope et en le pointant dans la direction du point noir.
Il a observé pendant plusieurs minutes très attentivement, puis a baissé l'instrument. Une vive surprise était peinte sur son visage.
"Ce n'est pas un cétacé", a-t-il dit.
"Qu'est-ce que c'est alors ?" demande l'ingénieur.
"Les vestiges d'une catastrophe maritime, M. Kelly."
"Une épave ?"
"Oui, un navire sans mâts, couché sur son côté tribord et sans équipage."
"Un voilier."
"Sans doute parce que je ne vois pas la cheminée de la machine."
"Il a dû être abandonné par son équipage."
"Abandonné ! Non, M. Kelly."
"Comment le savez-vous ?"
"J'ai vu quatre bateaux suspendus aux bossoirs de bâbord et de tribord."
"C'est impossible, O'Donnell !"
"Regardez, M. Kelly."
L'ingénieur prit le télescope à son tour et regarda.
"Vous avez raison", a-t-il alors déclaré. "Les canots de sauvetage sont en bon état."
"Que l'équipage s'est sauvé sur un radeau ?"
"Il aurait aussi emporté les bateaux, qui sont toujours préférables à un radeau mal navigué qu'une tempête peut facilement briser."
"Que l'équipage a été récupéré par un navire ?"
"C'est possible ; mais pourquoi le navire de sauvetage laisserait-il les bateaux, qui ont une certaine valeur ?".
"Je serais curieux d'éclaircir ce mystère, Monsieur Kelly."
"Nous allons éclaircir tout ça, O'Donnell. Le vent nous conduit droit vers ce navire, et avant la tombée de la nuit, nous l'aborderons."
"Tant que le vent ne change pas."
"Je suis déterminé à m'abaisser et à jeter mes ancres. Nous pourrons peut-être trouver de l'eau sur ce navire et remplir nos barils, qui se vident avec une rapidité qui m'effraie. C'est beaucoup si on a cent cinquante litres."
"En trente heures, le soleil a absorbé plus de quarante litres !" s'exclame O'Donnell. "Si ce calme nous garde emprisonnés quatre ou cinq jours de plus, nous aurons soif."
"Vous voyez, il est nécessaire de monter à bord de ce navire."
"Si nous ne faisons que passer devant vous, je suis résolu à me mettre à l'eau, M. Kelly, et à remorquer le ballon."
"Et moi de sacrifier un peu d'hydrogène."
Perdant son calme, le ballon s'approcha du navire avec une extrême lenteur, il y avait à peine un souffle d'air, et pas toujours continu. C'était beaucoup si les deux fuseaux couvraient un espace de cinq ou six kilomètres par heure, alors que cette épave se trouvait à trente kilomètres ou même plus.
À midi, même ce très léger souffle de vent avait disparu, et le Washington est resté immobile à une distance de vingt-deux ou vingt-quatre kilomètres. Mais vers trois heures, alors que la grande chaleur, qui avait atteint le chiffre effrayant de 42°, commençait à se calmer, une brise un peu fraîche se leva, qui le propulsa à la vitesse de huit kilomètres à l'heure.
Heureusement, il n'avait pas changé de direction, et le Washington a continué à descendre. En d'autres temps, cette descente aurait été regrettée par les aéronautes ; maintenant, ils l'ont bénie, car elle leur a permis d'aborder l'épave sans sacrifier l'hydrogène. À quatre heures de l'après-midi, l'océan n'est plus qu'à cent cinquante mètres et le navire à dix kilomètres.
A une si courte distance, avec l'aide du télescope, l'ingénieur et l'Irlandais pouvaient la voir clairement.
C'était un voilier de peut-être mille deux cents tonnes, de forme élégante, peint en noir. Ses mâts semblaient avoir été coupés près du pont, car on ne voyait que deux courtes sections ; ici et là, éparpillés à l'avant et à l'arrière, se trouvaient des espars, des bandes de voile et des cordages. Depuis les barges de bâbord et de tribord, on pouvait voir des paterazzi, des haubans et des griselles suspendus dans l'eau.
Ce navire, qui devait être gréé comme un brick ou un brick, était penché sur le côté bâbord. On aurait dit que sa cargaison s'était soudainement déplacée, peut-être pendant une grande tempête.
Aucune personne n'a pu être vue sur le pont : cependant, on a pu apercevoir une forme noire courant de la proue à la poupe qui n'a pas encore pu être clairement distinguée.
"Est-ce que ça pourrait être un animal ?" a demandé O'Donnell.
"C'est peut-être un chien", a répondu l'ingénieur.
"Abandonné par l'équipage ?"
"Certainement."
"Alors la catastrophe doit être récente : si elle datait de quelques semaines, le pauvre animal serait déjà mort de faim".
"Je le crois aussi."
À cinq heures, le Washington n'était plus qu'à trois kilomètres du navire. La brise l'a poussé juste au-dessus.
Le mécanicien fit attacher l'ancrage du volet aux guides-câbles et l'abaissa presque jusqu'au bord de l'eau : par précaution supplémentaire, il abaissa aussi les deux cônes, pour arrêter promptement l'aérostat si le vent l'emportait vers la mer.
À cinq heures et quart, le Washington n'est plus qu'à quelques dizaines de pas de l'épave, qui gît immobile comme un cadavre abandonné au milieu d'une flaque d'eau calme. Sur le pont, un énorme chien à poils noirs observe de deux yeux flamboyants le ballon qui s'approche, en émettant des grognements sourds.
"Attention à l'ancre. O'Donnell," a crié l'ingénieur.
"Ramez directement sur la bicoque du port et elle se prendra entre les haubans ou les grues du bateau", répondit l'Irlandais.
Le Washington était juste au-dessus du bateau. Soudain, elle a ressenti une forte secousse, les deux grands fuseaux se sont abaissés brusquement, puis ont tourné sur eux et sont restés immobiles. L'ancre, guidée par le bras de l'Irlandais, s'était accrochée, se fixant entre les haubans et la griselle suspendue de la barque bâbord arrière.
Le chien, un énorme molosse, s'est jeté sur l'ancre avec colère, en émettant des hurlements menaçants.
"L'enfer !" s'est exclamé O'Donnell. "Ça va être un peu difficile de dompter ce gardien ! Il va s'en prendre à nos veaux, M. Kelly."
"Nous allons le tuer, O'Donnell. Mais..."
"Quoi ?"
"Ne sentez-vous pas des vapeurs pestilentielles qui montent vers nous ?"
"Par mille morues ! Et l'odeur des morts, ça !" s'exclama l'Irlandais en pâlissant.
Et c'était vrai. De ce navire abandonné sur l'océan, sans mâts, sans voiles, à moitié gréé, proie sûre du premier ouragan, s'élevait une odeur de chair corrompue qui empestait l'air. On aurait dit qu'elle transportait une cargaison de cadavres : comme un sinistre cimetière flottant !"
Le mécanicien et O'Donnell, tous deux très excités, ont essayé de discerner quelque chose à travers l'écoutille principale, qui était grande ouverte comme la bouche d'un gouffre lugubre, mais en vain.
"Grand Dieu !" s'exclame l'Irlandais. "Quelle lugubre découverte avons-nous faite ! Serait-ce le vaisseau fantôme du Hollandais maudit, ou le vaisseau de fer ?"
"Êtes-vous courageux, O'Donnell ?" a demandé l'ingénieur.
"Je le crois", répondit l'Irlandais.
"Alors suivez-moi !"
"Et Simone ?"
"Il restera pour garder l'aérostat. Une autre frayeur le rendrait fou."
"Ne lui faites pas confiance, Monsieur Kelly. Regardez ses yeux et son visage."
"Simone !" dit l'ingénieur.
"Simone," répéta-t-il, "que fais-tu ?"
"Des morts ?" a-t-il demandé en montrant les dents. "J'ai peur."
"Mais quelle mort, quelle peur ?"
"Tu rêves, Simone"
"Non", dit l'Africain avec une étrange énergie.
"Restez et gardez Washington Mister Kelly", dit l'Irlandais. "Ce pauvre idiot peut nous jouer un mauvais tour."
"Lequel ?"
"Il peut couper la corde et nous laisser sur ce bateau malade."
"Tu restes ici, O'Donnell. Je vais descendre."
"Mais il y a un aboyeur en bas, monsieur, et un chien hydrophobe."
"Je n'ai pas peur. Reste et garde Simone, et si tu as besoin d'aide, tu me rejoindras."
"Ah non, monsieur. Vous êtes le capitaine ici et vous ne devez pas quitter l'aérostat et vous exposer au danger."
Puis, avant que le mécanicien ne pense à s'y opposer, le bon Irlandais enjambe le bord du canot de sauvetage, s'accroche à la corde et se laisse glisser.
"Attention au chien", a crié l'ingénieur.
"J'ai le revolver", a répondu O'Donnell.
Au fur et à mesure qu'il descendait, la puanteur devenait si horrible qu'il se sentait asphyxié. Il avait l'impression de descendre dans une immense fosse de cadavres en décomposition.
Quand il a atteint le dernier nœud, il s'est arrêté et a regardé en dessous de lui. L'énorme molosse se tenait près de l'ancre et le regardait de deux yeux effrayants en émettant des grognements sourds. Sa fourrure était hirsute, sa queue pendait et il avait de longues bavures dans la bouche.
"Il est hydrophobe !" s'exclame O'Donnell, qui sent un frisson parcourir ses os. "Bon gardien de ce vaisseau des morts !"
Il saisit son revolver de la main droite, tandis que de la gauche il s'accroche à la corde, et décharge quatre coups sur le molosse, qui s'effondre sur le pont du navire.
"Il est mort ?" a demandé l'ingénieur, d'en haut.
"Je pense que oui", a répondu O'Donnell. "S'il se relève, j'ai encore deux tirs à faire."
Il a lâché prise et est tombé sur le pont.
"Des bois de cerf !" s'est-il exclamé. "Quelle odeur ! Mais que s'est-il passé ici ? Que l'équipage a sabordé ?"
Il s'approcha du chien, et le voyant toujours agité, lui asséna un cinquième coup de boule dans l'oreille ; surmontant la répugnance qui l'envahissait, et se couvrant le nez d'un morceau de tissu, il s'avança vers l'écoutille maîtresse, qui était, comme on disait, ouverte.
Il regarda dans le gouffre et vit qu'il était à moitié rempli de barils empilés confusément les uns sur les autres et appuyés contre les parois latérales. Au milieu d'eux, il a vu le cadavre d'un marin en décomposition.
"Ça ne peut pas être le seul à émettre ces fumées pestilentielles", a-t-il marmonné.
Il se dirige vers le tableau arrière, et sur la roue de gouvernail, il lit ces mots : Benito Juarez. Vera Cruz.
"C'est un navire mexicain", cria-t-il en se tournant vers l'ingénieur, qui le regardait avec anxiété.
"Y a-t-il des morts ?" demande l'ingénieur.
"Je n'ai vu qu'un seul marin ; mais je crains qu'il y en ait d'autres dans le tableau et dans la chambre avant, à voir l'horrible puanteur qui règne ici".
"N'entendez-vous aucun bruit, aucun gémissement ?"
"Un silence grave règne. M. Kelly. Ils doivent tous être morts ici, et peut-être depuis quelques semaines."
"Je crains un grave danger, O'Donnell."
"Bah ! Les morts ne bougent pas."
"Mais ils empoisonnent, ils tuent."
"J'ai la peau dure", répondit l'Irlandais, qui n'avait peut-être pas compris l'allusion de l'ingénieur.
Sans ajouter un mot, il a courageusement descendu l'échelle dans le tableau, malgré l'horrible puanteur qui s'en dégageait.
Son absence a été brève. L'ingénieur le vit remonter rapidement, les cheveux hérissés, le visage désemparé, pâle comme un cadavre, et se précipiter vers l'ancre, qu'il délogea du paterazzi et de la griselle d'un revers de main.
"Fuyez, M. Kelly, fuyez !" cria-t-il avec un accent de terreur.
Il s'agrippe à la corde de guidage et, sans répondre au mécanicien pour ne pas perdre de temps, il se lance dans la montée en faisant des efforts surhumains pour aller le plus vite possible. En une minute, il a surmonté la distance et s'est hissé sur le canot de sauvetage, répétant d'une voix terrifiée :
"Fuyez, M. Kelly, fuyez !"
"Mais qu'avez-vous vu, O'Donnell ?" a demandé l'ingénieur. "Vous êtes pâle et désemparée."
"J'ai... que peut-être nous, qui avons respiré... ces miasmes,.... sont perdus."
"Une épidémie a éclaté sur ce vaisseau ?"
"Oui, et peut-être le plus terrible : la fièvre jaune !"
"Fuyons", répéta l'ingénieur, qui, malgré son courage, avait ressenti un frisson.
Ils ont renversé les cônes qui retenaient le ballon captif et y ont jeté un sac de lest.
Le ballon, déchargé de ce poids, s'est élevé rapidement, échappant aux fumées mortelles qui se dégageaient de ce cimetière flottant.



 

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